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Editoriali: Manette annunciate, ma non prevenute
Posted by Reboa on Thursday, December 30 @ 18:19:36 CET
2003 Download periodico

Mentre il giornale era già in macchina è scoppiata a Roma la «bomba» degli arresti di un magistrato e di molti curatori di fallimento, con denuncia a piede libero di altri giudici e il sospetto giornalistico che al provvedimento del Tribunale di Perugia, competente per i reati nei quali sono accusati giudici romani, seguirà un ulteriore tintinnar di manette.



Mentre il giornale era già in macchina è scoppiata a Roma la «bomba» degli arresti di un magistrato e di molti curatori di fallimento, con denuncia a piede libero di altri giudici e il sospetto giornalistico che al provvedimento del Tribunale di Perugia, competente per i reati nei quali sono accusati giudici romani, seguirà un ulteriore tintinnar di manette.
Il corpo centrale di questo numero di InGIUSTIZIA la PAROLA al POPOLO era dedicato non a caso alle vicende della sezione fallimentare, con interventi di un autorevole avvocato sottoposto in precedenza ad una campagna giornalistica ed una intervista all’ex Presidente Briasco, anch’egli oggetto di feroci polemiche.
La Costituzione Italiana prevede la presunzione di innocenza ed il fatto che un G.I.P. abbia ritenuto che ci si trovi in presenza di indizi tanto gravi da disporre la misura della custodia in carcere per un altro magistrato non significa necessariamente che quest’ultimo sia colpevole e non sarà certamente questa testata che attribuirà a chicchessia etichette di corrotto o cor-ruttore prima di leggere una sentenza definitiva.
Certo è, però, che nulla si è fatto per evitare che episodi similari si verificassero né per impedire che si creassero i presupposti per la commissione di reati.
E’ praticamente da quando questo giornale ha deciso di dedicarsi «a tempo pieno» al tema della giustizia che periodicamente trattiamo il tema della mancata trasparenza nella attribuzione degli incarichi giudiziari, precisando che quello delle curatele fallimentari è una delle questioni più rilevanti, ma non l’unica né, molte volte, quella di maggior rilievo economico.
Abbiamo affermato, e lo ripetiamo ad alta voce nel momento in cui una inchiesta è in atto, che deve essere regolamentata l’attribuzione delle amministrazioni e custodie giudiziarie, delle nomine degli arbitri, delle perizie e consulenze tecniche in quanto non è possibile che, ad esempio, vi siano dei periti tanto gettonati quanto incapaci di sostenere in sede di esame dei difensori in contraddittorio le tesi dalle quali sono scaturiti decreti di citazione o ordinanze di custodia cautelare.
Eppure si tratta di professionisti i quali sembra che svolgano prevalentemente l’attività di consulenti giudiziari, che quindi è tanto lucrosa da permettere di rinunciare ad altri clienti. Salvo il caso in cui i clienti si rivolgano a determinati studi proprio in dipendenza di tale attività.
Nessuno sa quanto la fiducia di un giudice o di un PM possa annualmente incidere sul fatturato di un professionista.
Sia chiaro, non vi è nulla né di illegale né di scandaloso che un magistrato si rivolga per abitudine ad uno o piùconsulenti dei quali conosce la capacità professionale, l’onestà e la puntualità nell’espletamento degli incarichi affidati, in quanto è giusto che egli scelga i propri ausiliari tra le persone da lui ritenute affidabili.
Il problema è che, trattandosi di denaro pubblico e di incarichi delicati, il tutto dovrebbe avvenire nell’ambito di un regolamento e in un sistema eticamente rivolto alla trasparenza: viceversa tutto ciò manca e, anzi, chi pone sul tappeto tale tema viene di fatto posto all’indice da parte dei vertici degli uffici i quali sarebbero preposti a tale regolamentazione, con un rifiuto di dialogo per «lesa maestà » tipico dei regimi dittatoriali.
Solo il fatto che la corruzione trovi nei regimi dittatoriali un terreno fertile dovrebbe indurre chi mantiene similari atteggiamenti a rivedere le proprie posizioni di chiusura al dialogo.
Chi scrive non può non domandarsi se non poteva essere evitata la indubbia lesione del prestigio della Magistratura derivata dai recenti arresti e dalla notizia che un Magistrato onesto sarebbe stato assassinato sostanzialmente perché appariva agli occhi di una delle più feroci bande criminali romane come una mosca bianca all’interno di un sistema nel quale la sparizione di un giudice non ha provocato alcuna plateale reazione.
Banda alla quale risultava legato un altro personaggio noto alle cronache giudiziarie in cui beni sono stati acquisiti all’erario dopo la condanna definitiva, quel Nicoletti per i rapporti con il quale un altro alto magistrato del Tribunale di Roma è stato oggetto di accuse, così come lo è stato peril più mediaticamente noto caso SME.
La sezione delle esecuzioni immobiliari reagì al penultimo scandalo (quello della sparizione dei fascicoli), disponendo la scannerizzazione di tutti i documenti, con un atto di organizzazione che ha prodotto anche dei rilevanti benefici in termini di operatività quotidiana: infatti la giustizia non si blocca ogni qualvolta il supporto cartaceo sia «fuori posto» per uno dei tanti legittimi motivi per i quali tale evento si verifica nella operatività quotidiana.
Lo scandalo di questi giorni è grave non tanto per il numero dei magistrati coinvolti o per la loro eventuale colpevolezza, ma per il fatto che si è verificato un evento da tempo di fatto annunciato dalla stampa e, quindi, tanto prevedibile che nei corridoi si scommetteva sulla data, se prima o dopo l’insediamento della nuova presidenza della sezione fallimentare.
Era quindi dovere dei vertici del Tribunale non limitarsi a presiedere ad interim la sezione, ma eliminare alla radice la possibilità del verificarsi di eventi quali assegnazioni pilotate o curatele ingiustificatamente ricorrenti.
Gli arresti di Perugia riguardano eventi passati: il problema che deve essere risolto è come impedire non solo che gli stessi si ripetano, ma comeridare credibilità ad un’istituzione che dovrebbe trovare nel suo rigore morale la legittimazione etica delle sentenze di condanna.
In determinate situazioni è necessario ricorrere a parole forti, magari un po’ retoriche: il Tribunale di Roma ha un imperativo categorico, quello di emanare un regolamento relativo alle modalità di assegnazione di tutti i processi e di tutti i molteplici incarichi giudiziari con previsione di un sistema di controllo aperto a tutti gli operatori del diritto ed ai vertici giudiziari: non si vede ad esempio perché, se i rappresentanti del popolo devono annualmente rendere pubblica la loro dichiarazione dei redditi, ciò non debba avvenire per chi il popolo lo giudica, lo condanna o interviene in maniera pesante sui suoi diritti più rilevanti, quali la famiglia o l’azienda con la quale si sostenta.
Né si dica che per subordinare l’assunzione di incarichi fiduciari a regole di trasparenza occorrano delle leggi: gli enti pubblici (e tale è un Tribunale) nell’espletamento della propria attività amministrativa ben possono darsi dei regolamenti, i quali, peraltro, sono sottoposti ex lege al controllo di legittimità. Per farlo, quindi, basta la volontà politica.

di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma

 
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