Fino a che limite il
paziente è informato,
quanto e come vuole essere
informato e fino a
che punto
può decidere tra diritto
alla vita o diritto alla
morte?
In relazione alla proposte
di legge Pisapia
e Ripamonti-Del Pennino,
sento il dovere,
quale docente di chirurgia
nonché responsabile
di un servizio universitario
di oncologia avanzata
e moderna, di proporre
alcune considerazioni
che possono far riflettere
gli studenti, i medici, gli
avvocati, i magistrati e la
gente comune.
Sappiano che quotidianamente
ci troviamo di
fronte a pazienti che, a
causa dei mass media, di
internet, di rapide comunicazioni
televisive, di
messaggi o di cultura
medica «popolare», sono
spesso disorientati su atteggiamenti
clinici o
scelte farmacologiche da
proporre a se stessi o ai
propri cari anche a causa
di coincidenza di prescrizioni
di medici diversi;
subentra a questo punto,
spontaneo per chi è addetto
ai lavori, di chiedersi
fino a che limite il
paziente sia informato,
quanto e come voglia essere
informato, e fino a
che punto (sia esso culturalmente
ricco o dotato
solo di senso pratico)
possa decidere tra diritto
alla vita o diritto alla
morte.
Sappiamo che il consenso
«informato», per
quanto esauriente e dettagliato,
non può mai, in
maniera diretta, dire al
paziente che ha un tumore,
che gli permetterà di
vivere poco. Trovo, a
questo punto estremamente
corretto sul piano
etico, deontologico ed
umano chiarire con note
indiscutibili che di fronte
ad una malattia inguaribile,
egli sappia di avere
una patologia grave e curabile,
e che possa divenire
più grave e mortale
se non curata (solo così
potremmo diminuire o
evitare il numero di suicidi
da depressione reattiva).
Per quel che riguarda la
decisione che un soggetto
possa o debba decidere
se donare organi, se voler
usufruire di terapie compassionevoli
o di voler
usufruire di accanimenti
terapeutici in «limite vitae
» trovo estremamente
incauto pilotare la volontà
del cittadino, in
quanto sappiamo noi
stessi che le decisioni intorno
ad argomenti così
delicati come anche per il
temibile «suicidio assistito
» e per l’eutanasia, possano
essere influenzati da
momenti, notizie, stati
d’animo, considerazioni
viziate da fenomeni familiari
od altro. Sappiamo
inoltre che a venti anni,
ed è l’esperienza personale
colloquiando con i
miei studenti, non si può
avere lo stesso concetto
del diritto alla vita od alla
morte che si può avere a
settanta anni e, per di più
la differenza etnica, religiosa,
morale o ambientale
possono influire in modo
determinante e possono
far cambiare le decisioni.
In ultima analisi, ritengo
dopo accurata ponderazione
e consultazione con
persone di varie condizioni
sociali ed età, che si
possa accettare un’eventuale,
volontaria, richiesta
di «testamento biologico»
solo a condizione, in pazienti
perfettamente conosciuti,
di poter rinnovare,
come per una carta d’identità,
ogni 5 anni dopo i
50 anni ed ogni 10 prima
di tale età, la volontà
espressa o di modificarla
per alcune voci o di annullarla.
Solo così il medico, di
fronte a frangenti in cui
debba decidere insieme ad
altre autorità se far morire
o vivere il paziente, potrà
venire incontro al desiderio
del paziente che è conscio
di quello che vuole,
ma soprattutto non dovrà
venire al compromesso
con il suo compito di essere
«custode della vita»
come dice Giovanni Paolo
II e con il principio con
cui i medici si laureano e
che non dovrebbero mai
dimenticare che recita:
«Primum non nocere».
di Giuseppe Maria Pigliucci