Lo spazio abissale che corre tra la domanda di giustizia e la risposta
inadeguata e talvolta cinica che danno gli uomini
Questa è la storia di
un ascensore e di
un malato terminale,
una storia triste come è
triste il dolore umano.
Alberto era mio amico.
Non lo sentivo da qualche
anno ma l’amicizia era viva
perché le esperienze
comuni erano state importanti
e liete.
Lo ricordavo generoso e
ottimista, pronto alla lotta
ma anche al perdono.
Mi telefonò ai primi di
marzo. «Ho il cancro» mi
disse con voce spezzata.
«Non posso più fare le
scale; lo sai abito al sesto
piano. Ho bisogno dell’ascensore
ma mi hanno tolto
la chiave perché a suo
tempo non ho partecipato
alle spese dell’impianto
che è stato fatto da altri
condomini. Però era prevista
la partecipazione o
l’uso da parte di altri condomini.
Mi chiedono ottomila
euro; ma di pensione
ne prendo ottocento e...
devo curarmi. Vorrei partecipare
solo all’uso... ma
anche per questo mi chiedono
cifre spropositate».
«Aiutami» mi disse.
Era il sei marzo.
In tutta fretta butto giù un
ricorso d’urgenza, metto a
confronto i beni giuridici
in questione: il diritto di
proprietà, il diritto alla salute,
l’obbligo di solidarietà
e di soccorso.
I referti della ASL sono
drammaticamente eloquenti:
«Coloncarcinosi
peritoneale e metastasi
epatiche, condizioni generali
gravi, invalidità totale
e permanente al 100 %».
Chiedo la trattazione immediata.
Ma il giudice
del turno è tranchant:
«l’ascensore è stato installato
da tanto tempo...
il Suo cliente poteva
muoversi prima». Provo a
spiegargli che «prima»
Alberto non era malato e
dunque poteva strainfischiarsene
dell’ascensore.
Non serve a niente... del
resto chi ha mai incontrato
un giudice disposto a
cambiare idea!
Si seguono i tempi ordinari.
Il 700 viene assegnato
a una signora. Me
ne rallegro fiducioso nella
sensibilità femminile.
Mi precipito da lei a fine
udienza per illustrare la
gravità e urgenza del caso.
Mi sento certo di parlare
a un orecchio attento;
sicuramente provvederà
inaudita altera parte.
Ma... quando finisco mi
fa, con infastidita freddezza,
«avvocato, me lo
devo guardare».
Il 18 marzo si discute il ricorso.
Il giudice con motivazione
avara respinge e
condanna alle spese accogliendo
le tesi del resistente:
l’amministratore
del condominio non è passivamente
legittimato e
poi... manca il fumus. Alberto
mi telefona supplicando;
il mancato uso dell’ascensore
ostacola anche
le cure domiciliari che la
ASL gli ha assegnato.
Faccio reclamo richiamando
la giurisprudenza secondo
cui l’amministratore
è invece legittimato per
ogni impianto comune a
tutti o ad alcuni condomini.
Ancora una volta lamento
le condizioni di Alberto
ormai gravissime.
Si va in camera di consiglio
il 16 aprile; collegio e
avvocati siedono intorno a
un tavolo; il clima è partecipativo.
Illustro il caso e
non riesco a trattenere l’emozione.
Credo di avere
chiesto al Collegio se la
Giustizia sia un mostro
senz’anima, un Leviatano
che si nutre di codici ed
espelle sentenze. Credo di
avere alzato la voce molto
al di là del bon ton.
Il Tribunale accoglie il reclamo
con ordinanza datata
il successivo 17 Aprile.
Ma il provvedimento è depositato...
il 2 Maggio:
mancava una firma!!! Il
Collegio conviene che
l’amministratore del condominio
è passivamente
legittimato, che Alberto ha
diritto a usare l’ascensore
sol che versi una modesta
cauzione.
Ma da qualche giorno Alberto
non mi telefona più.
L’11 maggio muore nel
letto a sbarre che l’ASL
gli ha assegnato insieme
all’assistenza domiciliare.
Dell’ascensore, della giustizia
degli uomini non sa
che farsene.
Sono passati due mesi;
due mesi per soccorrere
un moribondo.
Perché ho raccontato questa
storia ?
Perché ancora una volta
ho misurato lo spazio
abissale che corre tra la
domanda di giustizia e la
risposta inadeguata e talvolta
cinica che danno gli
uomini... e mi sento in
colpa perché partecipo a
questo inutile e talvolta
tragico rito.
di Giorgio Della Valle
Avvocato del Foro di Roma