Bertinotti e Bossi
hanno in comune una dote,
quella della coerenza politica
che li porta a non sot-
tomettere le proprie idee alla
ragion di stato
Liquidare le periodiche
uscite contro
«Roma ladrona» di
Umberto Bossi come un
fenomeno folcloristico o
come le intemperanze di
una sorta di bambino discolo,
come tenta di fare
Silvio Berlusconi, può anche
essere un ottimo espediente
mediatico per tentare
di evitare che le polemiche
scatenate dal leader leghista
facciano da cassa di
risonanza alle sue tesi, ma
certamente non è la soluzione
di un problema con
il quale la politica italiana
convive da almeno dieci
anni.
Né si pensi che la cosa riguardi
esclusivamente il
centro destra, alleato con la
Lega e scottato dall’esperienza
del 1994, in quanto i
successivi governi Prodi,
D’Alema ed Amato tentarono
di raggiungere accordi
con Bossi e fu a causa
dell’impossibilità di un
dialogo costruttivo con lui
che si trovarono nella morsa
della coerenza politica
di Bertinotti.
Si potrebbe affermare che
Bertinotti e Bossi, oltre ad
avere in comune la B iniziale
del loro cognome,
hanno in comune una dote,
quella della coerenza politica
che li porta a non sot-
tomettere le proprie idee alla
ragion di stato.
Se non può negarsi che vi
sia un fondo di vero in ciò,
analogamente non può
omettersi di fare alcune considerazioni.
Le idee di Bertinotti
sono figlie di un pensiero
politico e filosofico
che ha caratterizzato nel bene
e nel male la vita del XX
secolo e continua ad influire
sull’economia e sulla storia
del terzo millennio, mentre
le posizioni di Bossi sono le
figlie di un mal di pancia
che esalta gli egoismi locali
in una visione regionalistica
della politica e, come tale,
storicamente limitata.
Altresì la ragion di stato non
è solo una scusa per insabbiare
inchieste o mettere a
tacere istanze provenienti
dalla base, ma può essere
anche un qualcosa di estremamente
positivo, cioè il
sottomettere alcuni interessi
individuali di fronte all’interesse
superiore della collettività
di vivere in pace e prosperità.
E’ evidente che, per un uomo
politico, può essere
spesso difficile conciliare
le proprie idee e le promesse
elettorali con la ragion
di stato. Per farlo bisogna
essere degli statisti, non dei
semplici politicanti.
Oppure bisogna avere il
coraggio di non accettare
incarichi incompatibili anche
solo con certe affermazioni
pubbliche: è infatti
evidente che diverso è il
ruolo del leader politico di
un partito di opposizione
da quello di un ministro
della Repubblica.
Altresì non può negarsi che
si ponga un problema di
compatibilità tra il giuramento
di fedeltà ad una Repubblica
che afferma nella
propria costituzione di avere
in Roma la propria capitale.
Repubblica che, a propria
volta, è la continuazione di
un regno d’Italia formatosi
sul principio risorgimentale
di Roma capitale.
Vi è un sillogismo nella storia
della nostra nazione: Italia
eguale Roma capitale. Il
che significa che chi si pone
in contrasto con tale concetto
può essere una persona rispettabilissima
ed è sicuramente
libero di parlare in
uno stato democratico, ma
dovrebbe coerentemente rinunciare
alla cittadinanza
italiana o, quantomeno, alle
cariche ed ai privilegi a lui
attribuiti da quella «Roma
ladrona» che tanto osteggia.
Oppure egli non parli di coerenza
e, allora, se il Presidente
del Consiglio lo bacchetta
come un bambino discolo,
ridicolizzandolo così
di fronte all’opinione pubblica,
ed egli accetta le bacchettate,
è palese che non ci
si trova di fronte ad un uomo
dello spessore politico
che si richiederebbe non già
ad uno statista, ma al semplice
sindaco di un comune
capoluogo di provincia.
Fare politica è, anche, avere
memoria. Avere memoria significa
conoscere la storia.
Sia la storia d’Italia che la
storia della vittoria del centro
destra portano a Roma.
Quel Carroccio che è il simbolo
della Lega è parte della
storia del Risorgimento italiano
il cui presupposto non
è stato certo creare uno stato
padano o riproporre in chiave
moderna l’Italia dei Comuni,
ma raggiungere l’unità
d’Italia con Roma capitale.
Se l’on. Bossi afferma il
contrario, significa che ignora
la storia, fatto che legittima
nei suoi confronti la definizione
di politico ignorante
che spesso riceve da parte di
oppositori (ed alleati).
Ma anche se si vuole passare
sopra la storia risorgimentale
in nome di un modernismo
che, invero, non è certamente
uno delle prerogative
della Lega, non può negarsi
che la storia dei successi
del centro destra nasce
da Roma, dalla scelta dei
Romani di portare al ballottaggio
per la carica di sindaco
capitolino Gianfranco Fini,
che, alla guida del MSI /
DN, enunciava il progetto di
Alleanza Nazionale in uno
alla lista civica Insieme per
Roma.
Fu quel quasi 50 % dei consensi
e quel vento di entusiasmo
per il progetto missino
(che si riprometteva di cambiare
il sistema con lo slogan
«non restaurare, non rinnegare
») che indusse Silvio
Berlusconi a pronunciarsi in
favore di Gianfranco Fini. E
fu quello stesso vento che
proveniva da Roma a portare
nel 1994 gli attivisti del Carroccio
ad assumere a Montecitorio
la carica di deputato,
trasformando un movimento
locale di minoranza in una
forza politica di governo.
E’ l’inno di Mameli a ricordarci
che l’Italia è «schiava
di Roma», perché senza la
capitale e la sua storia millenaria
essa sarebbe null’altro
che una «espressione geo-
grafica», così come la definì
Bismark, dimostrando che
non solo Bossi, anche un
grande cancelliere può essere
incapace di leggere il messaggio
che porta il vento.
Milano, così come nessuna
altra città d’Italia, mai potrà
avere quel prestigio indispensabile
per guidare un
paese a livello internazionale.
Milano, senza Roma, non
sarebbe il cuore italiano degli
affari, ma solo una importante
città del centro sud
dell’Europa.
Una politica intelligente
nell’interesse dello sviluppo
di Milano e del Nord è
quella di rispettare la geografia,
cioè di fare di tali regioni
il punto di passaggio
obbligato di un centro sud
ricco e prosperoso, dove
Roma, anche dal punto di
vista stradale, dovrebbe essere
il centro economico di
un’Italia a sua volta al centro
del Mediterraneo, non
una città che difende i suoi
posti di lavoro di fronte all’esodo
delle aziende verso
il nord.
Perché il vivere da ricco in
un fortino circondato da poveri
è passare la propria esistenza
in una prigione dorata,
non vivere in prosperità.
Capirlo significa comprendere
perché il Cristianesimo
ha preservato Roma dalla
caduta di tutti gli imperi.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma