Brevi considerazioni in ordine alla natura degli assegni
di separazione e di divorzio tra i coniugi
In ordine alla ultima
proposta di legge presentata
con il numero
2444 alla Camera dei Deputati
ed a firma dell’Onorevole
Montecchi più altri,
non si può non rilevare come,
allo stato degli atti e
degli interventi succedutesi
anche in occasione del dibattito
parlamentare della
seduta del 24.3.03, l’attenzione
del Legislatore si sia
concentrata sostanzialmente
nel verificare il nuovo
portato della disciplina
proposta, come innovativo
sotto l’aspetto della «cessazione
della comunione
legale tra i coniugi» sottolineando
come l’effetto innovatore
sia quello di anticipare
alla «pronunzia della
separazione» l’effetto
della cessazione della «comunione
legale» e non come
oggi accade laddove
l’effetto della cessazione
della comunione è legato o
alla pronuncia dell’Omologa
nella separazione consensuale,
o in caso di «giudiziale
» l’effetto sia collegato
alla Sentenza di separazione,
pronuncia che può
effettivamente intervenire
anni dopo la soluzione della
comunione abitativa tra
i coniugi, che viene sancita
dal «provvedimento presidenziale
».
V’è però un aspetto diverso
«sostanziale» che sino
ad oggi non pare sia stato
trattato con la necessaria
attenzione, tale aspetto può
riassumersi nel quesito:
«cosa sarà dell’assegno di
mantenimento, previsto per
il coniuge affidatario della
prole minorenne, quando
richiesto il divorzio dopo
un anno, i criteri da dover
applicare, per valutare
l’ammontare dello stesso
sono quelli diversi, per
presupposti e fini, così come
statuito dalla Dottrina e
dalla Giurisprudenza?».
In altre parole, giova ricordare,
che la disciplina sostanziale
del nostro diritto
di famiglia, prevede
espressamente, e numerosissime
Sentenza sulla materia
lo confermano in via
univoca, una sostanziale
diversità sia nei presupposti,
sia nei fini di quello,
che per comodità, possiamo
chiamare «l’assegno
della separazione» rispetto
al diverso contributo, che
sempre per semplicità potremo
chiamare «l’assegno
divorzile».
Il primo, in estrema sintesi,
rappresenta, all’atto della
soluzione della vita matrimoniale
in concomitanza
con il provvedimento Presidenziale
di natura urgente,
il contributo posto in
capo al coniuge «economicamente
più forte» in favore
del «coniuge economicamente
più debole», normalmente
«affidatario della
prole» contributo che viene
calcolato sulla base di
quello che era ed è «il tenore
di vita della famiglia»
per conservare al coniuge
affidatario ed ai figli quel
tenore di vita, necessario
per ridurre l’effetto destabilizzante
della separazione
«sui figli».
In questa ottica, vogliamo
ricordare sono altresì da
interpretare tutte le pronunce,
che vogliono la
conferma dell’assegnazione
della casa coniugale, in
favore di quello tra i coniugi
che risulterà più idoneo
all’affidamento dei figli
minori. In altre parole,
l’assegnazione della «casa
coniugale» non è di premio
per il coniuge affidatario,
ma di necessaria tutela per
lo stress emotivo dei minori,
coinvolti, loro sì senza
alcuna responsabilità, nell’evento
separativo.
Come già sottolineato, sono
molto numerose le pronunce
della Giurisprudenza,
sia di legittimità che di
merito, che dimostrano
univocamente quanto diversi
siano i presupposti e
la natura dell’assegno percepita
dal coniuge in caso
di separazione, rispetto e
quello percepito nel successivo
caso di divorzio.
Quanto all’assegno di separazione,
il riferimento
normativo è costituito in
primis dall’articolo 156 del
codice civile, in forza del
quale il diritto di un coniuge
di ricevere, in seguito a
separazione, dall’altro coniuge
quanto necessario al
proprio mantenimento –
«qualora egli non abbia
adeguati redditi propri» –,
può essere visto come la
trasformazione di un precedente
obbligo, avente la
sua fonte legale nell’articolo
143 del codice civile, ed
in particolare dell’obbligo
di contribuire ai bisogni
della famiglia.
Al contrario, ciò non accade,
come vedremo, nel caso
dell’assegno divorzile,
in quanto il sorgere del
«fatto-divorzio» comporta
la nascita di un nuovo diritto,
la fonte del quale non
è più il vincolo matrimoniale,
bensì è la pronuncia
che fa cessare gli effetti civile
del matrimonio.
Più specificamente, presupposto
fondamentale affinché
il coniuge separato, al
quale non sia addebitata la
separazione, possa avere il
diritto di percepire l’asse-
gno di mantenimento, è
che questo non disponga di
«adeguati» redditi propri.
Ciò pone il problema di
stabilire quale sia il significato
da attribuire all’aggettivo
«adeguati» utilizzato
dal legislatore, ma soprattutto
di determinare
quale sia il parametro di
riferimento da tenere presente
nella determinazione
dell’adeguatezza o meno
di tali redditi.
Il concetto di «adeguati
mezzi propri», volutamente
utilizzato dal legislatore
al fine di lasciare un certo
spazio di discrezionalità al
giudice ed alle parti nelle
loro diverse determinazioni,
è da rapportarsi, per
Giurisprudenza costante, al
tenore di vita goduto dai
coniugi in costanza di matrimonio.
L’adeguatezza deve essere,
dunque, commisurata al tenore
di vita della famiglia
in costanza di convivenza.
Ancora più specificamente,
è bene sottolineare come
il tenore di vita che il
coniuge separato ha diritto
di mantenere, anche a seguito
della separazione,
non deve essere confuso
con quello che di fatto
l’altro coniuge gli consentiva
prima della separazione,
ma è quello che gli
avrebbe dovuto consentire
in base alle sue «effettive
capacità».
Ed è proprio su tale approfondimento-
indagine
che viene alla luce la valutazione
che il Giudicante
dovrà operare rispetto alla
reale capacità reddittuale
del coniuge, tenuto alla
corresponsione dell’assegno
di mantenimento.
Vediamo ora la natura e i
presupposti dell’assegno
cosiddetto «divorzile».
Anche se apparentemente
le espressioni utilizzate
dal legislatore per individuare
i presupposti per la
nascita del diritto alla percezione
dell’assegno, nel
caso di separazione e nel
caso di divorzio, potrebbero
sembrare a prima vista
assimilabili, ad una più attenta
analisi ci si avvede
del contrario.
Infatti, il concetto di «adeguati
redditi proprio» contenuto
nell’articolo 156 del
codice civile (separazione),
e il concetto «quando
il coniuge non ha mezzi
adeguati o comunque non
può procurarseli per ragioni
oggettive» utilizzato dal
legislatore nell’articolo 5
della Legge 898 del 1970,
poi modificato dalla Legge
74/87, (divorzio) corrispondono
a criteri interpretativi
fondamentalmente
diversi.
Tanto è vero che la Giurisprudenza
ha qualificato
l’assegno di divorzio come
avente natura «assistenziale
», nel senso che la sua
concessione trova il suo
presupposto nell’impossibilità
per l’ex coniuge di
procurarsi da sé mezzi di
sostentamento che gli consentano
di condurre un’esistenza
libera e dignitosa.
Vediamo infatti tra le tante
la Sentenza 2955/1998,
Cassazione Civile Sezione
1° che testualmente statuisce:
«A seguito della disciplina
introdotta dall’articolo
10 Legge 74 6.3.87, che
ha innovato la normativa
di cui all’articolo 5 della
Legge 898 1.12.70, attribuendo
all’assegno di divorzio
natura esclusivamente
assistenziale, il richiedente
deve fornire la
prova della mancanza di
mezzi economici che gli
permettano di mantenere il
tenore di vita goduto in costanza
di matrimonio, senza
che a tal fine possano
supplire i poteri officiosi
di indagine spettanti al
giudice».
Ancora sempre nella medesima
statuizione la Suprema
Corte prosegue: «il
divario delle condizioni
economiche dei coniugi al
momento della pronuncia
di divorzio, non di per sé
solo presupposto sufficiente
per l’attribuzione
dell’assegno divorzile…».
Sempre con le medesime
espressioni sono poi intervenute
numerose altre
Sentenze della Suprema
Corte, tanto da poter permettere,
agli addetti ai lavori,
di definire la “natura”
dell’assegno divorzile,
come pacifica per giurisprudenza
costante.
Poste queste premesse,
non v’è chi non veda come
la proposta Montecchi
numero 2444, possa prestare
il fianco a due ordini
di considerazioni critiche,
in primis la valutazione
positiva della «immediata
soluzione della comunione
legale dei beni, con conseguente
possibilità per il
coniuge di ottenere più rapidamente
la metà di sua
competenza», può essere
facilmente ridimensionata,
nella sua supposta efficacia,
sol considerando che
nella vita concreta, tra i
coniugi i dissapori non
portano alla separazione in
modo fulmineo ed inaspettato,
ma sono sempre il
frutto di una «crisi interrelazionale
» che ha come
primo effetto quello di
non leggere più «l’altro»
come elemento con il quale,
o sul quale investire, e
quindi si perviene all’atto
della separazione con un
patrimonio comune ormai,
molto, troppo spesso, depauperato
e ridotto, per le
scelte poste in essere proprio
nel periodo antecedente
alla separazione, in
quella zona neutra dove
«chi muove per primo vince
», e molto spesso chi
muove per primo e il medesimo
soggetto abituato a
ragionare in termini economici
ed imprenditoriali,
molto raramente patrimonio
di una «casalinga».
Ma il dato più allarmante
non può non considerarsi
la «consequenziale drastica
riduzione dell’ombrello
protettivo» costituito dall’assegno
di separazione,
che non accompagnerà più
il coniuge debole per i primi
tre anni dalla separazione,
ma esporrà questi a
dover fare i conti con la
diversa natura dell’assegno
divorzile, non appena decorso
«un solo anno»!
Da qui la necessità di dover
predisporre degli
emendamenti alla proposta
in discussione alla Camera,
prevedendo, al di là
delle corrette considerazioni
relative al necessario
passaggio del tempo affinché
possa essere elaborato
«il lutto connesso all’evento
separativo», formulate
dalla Dottrina dominante
nell’ambito della Psicologia
Relazionale, quanto
meno una specifica previsione
di un correttivo riguardo
alle separazioni in
presenza di figli minori, e
a quelle separazioni dove è
presente un coniuge che si
sia dedicato, per scelta comune,
alla cura domestica.
di Giorgio Vaccaro e Daniela Carletti