Tabù è una parola
che deriva dalla
lingua polinesiana
e significa vietato: il termine
divenne di moda ai
tempi della contestazione
giovanile del 1968, in
quanto una delle bandiere
dei ragazzi di allora
era quella di abbattere i
tabù.
Tabù è una parola
che deriva dalla
lingua polinesiana
e significa vietato: il termine
divenne di moda ai
tempi della contestazione
giovanile del 1968, in
quanto una delle bandiere
dei ragazzi di allora
era quella di abbattere i
tabù.
Strano fenomeno psicologico
quello delle parole,
spesso se ne ricercano
di inusuali per evitare di
pronunciarne alcune il
cui significato sia palese,
quasi che il loro utilizzo
sia vietato e quel tabù
non si possa infrangere.
E’ vero che la scelta della
parola tabù aveva anche
un’altra motivazione,
legata ai costumi sessuali
dei polinesiani prima della
colonizzazione da parte
degli europei, costumi
ai quali quel movimento
si richiamava allorché
auspicava il libero amore
e suggeriva di denudarsi
integralmente sulle
spiagge.
In realtà una guerra ai divieti
portata avanti con il
sogno polinesiano di sole,
mare, libero amore e
nudismo aveva molto più
successo di una guerra ai
divieti sic et simpliciter.
Il difficile viene quando
non vi sia alcuno stratagemma
per aggirare l’ostacolo
e l’argomento non
può che essere affrontato
direttamente, ma farlo è
tabù.
Il tema politico giudiziario
scottante è, ancora una volta,
quello del processo penale
e del ruolo e ruolo di
appartenenza del pubblico
ministero. Sino a circa un
anno fa il solo affrontare la
discussione portava quale
conseguenza l’accusa di
essere «complice» degli
imputati per Tangentopoli
e di voler proteggere Silvio
Berlusconi.
La vittoria elettorale dell’attuale
Presidente del
Consiglio ed il consolidamento
del suo potere hanno
indotto la Magistratura
ad affrontare la discussione
su ipotesi di cambiamento
del sistema attuale.
Si registra così la posizione
del Presidente dell’ANM,
di Edmondo Bruti Liberati,
sul n°3 della rivista “IL
GIUSTO PROCESSO”,
ove l’illustre magistrato si
esprime in senso favorevole
ad una più netta separazione
delle funzioni, piuttosto
che a quella delle carriere,
al fine di mantenere
il PM nell’alveo della cultura
della giurisdizione,
cioè collaboratore della ricerca
delle verità piuttosto
che acceso sostenitore delle
tesi accusatorie.
Invero un’attenta lettura
dell’articolo fa ritenere
che, più che di una vera
apertura, si tratti della ricerca
di uno spazio mediatorio
con le forze di governo
al fine di preservare comunque
la appartenenza
del PM alla Magistratura.
Una soluzione gattopardesca
non provochi modifiche
sostanziali nell’ordinamento
giudiziario.
Scrive infatti il Presidente
Bruti Liberati: «occorre
garantire una migliore specializzazione
ed un più elevato
livello di professionalità
specifica nei magistrati
chiamati ad adempiere all’uno
o all’altro ruolo e
prevedere un opportuno
momento di valutazione nel
passaggio dall’esercizio di
una funzione all’altra.
Occorre inoltre adottare le
misure necessarie per assicurare
che tale passaggio
non avvenga con modalità
e in un contesto tale da poter
anche solo ingenerare
il dubbio che possa derivarne
un’influenza negativa
sull’esercizio della nuova
funzione. A tale fine (a
parte la considerazione
che l’incompatibilità non
ha ragion d’essere nelle
ipotesi in cui dalle funzioni
requirenti si acceda alle
funzioni giudicanti civili),
sembra necessario e sufficiente
un meccanismo costruito
attorno alla incompatibilità
a livello di circondario.
Una volta adottata.opportunamente
la opzione per
la cd. distinzione delle funzioni
occorre evitare che la
concreta disciplina (anche
per la durata massima della
incompatibilità) possa
dar luogo in realtà ad una
sostanziale vera e propria
separazione delle carriere
».
Pur con le riserve sopra
espresse, occorre dare atto
che l’articolo costituisce un
passo in avanti nel dibattito
sul PM in Italia, perché dimostra
che anche la Magistratura
si rende conto dell’esistenza
di uno dei problemi
denunciati da avvocati
ed uomini politici, cioè
quello dei frequenti passaggi
di giudici da un ruolo
all’altro e delle inevitabili
commistioni che derivano
da tale situazione.
Rimane però un tabù dialettico,
quasi che si facciano
delle aperture per scongiurare
che qualcuno ponga
sul tavolo il quesito più
scottante, cioè se sia corretto
il ruolo dell’accusa
debba essere esercitato da
uomini di legge che superano
un pubblico concorso
e , poi , rispondono del loro
operato solo se violano
delle norme disciplinari
piuttosto che da uomini di
legge che ottengono la fiducia
popolare e, periodicamente,
sottopongono il
proprio operato, oltre che
agli organi disciplinari, al
giudizio degli elettori, così
come avviene negli USA.
I legislatori italiani degli
ultimi anni, di tutti i poli
politici, hanno preso un indirizzo:
smantellare il sistema
giudiziario che trova
origine nel diritto romano e
nei codici napoleonici e sostituirlo
progressivamente
con istituti mutuati dal diritto
anglosassone.
Ergo un avvicinamento al
sistema giudiziario statunitense
sarebbe in linea con
il percorso tracciato dal legislatore
e, quindi, non dovrebbe
costituire uno scan-
dalo discutere della fattibilità
in concreto di un percorso
similare per ciò che
riguarda il PM.
Del resto i termini Procuratore
della Repubblica hanno
sostituito quelli di Procuratore
del Re, i quali semanticamente
volevano significare
che il PM rappresenta
il Sovrano, il quale
esercitava i propri poteri in
nome del popolo.
Con l’avvento della Repubblica,
ai sensi dell’art. 101
Cost., la Giustizia è esercitata
in nome del popolo e,
quindi, non appare teoricamente
incostituzionale un
sistema che stabilisca che
l’azione penale venga da
giuristi eletti direttamente
da quest’ultimo.
Alcuni uomini politici, in
particolare della Lega Nord,
avevano in più di una occasione
minacciato di presentare
progetti di legge in tal
senso, ma una ricerca tra gli
atti parlamentari ha dato
esito negativo.
Il che significa che si sbandiera
il tabù più per minacciare,
che per reale volontà
di aprire un dibattito culturale
su un’ipotesi che non è
un’eresia, ma solo la scelta
di una nazione che viene
considerata, a torto o a ragione,
come il simbolo della
democrazia dell’ultimo
secolo.
di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma