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Editoriali: Il P.M. ed i tabù
Posted by Reboa on Friday, March 18 @ 17:46:55 CET
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Tabù è una parola che deriva dalla lingua polinesiana e significa vietato: il termine divenne di moda ai tempi della contestazione giovanile del 1968, in quanto una delle bandiere dei ragazzi di allora era quella di abbattere i tabù.



Tabù è una parola che deriva dalla lingua polinesiana e significa vietato: il termine divenne di moda ai tempi della contestazione giovanile del 1968, in quanto una delle bandiere dei ragazzi di allora era quella di abbattere i tabù.
Strano fenomeno psicologico quello delle parole, spesso se ne ricercano di inusuali per evitare di pronunciarne alcune il cui significato sia palese, quasi che il loro utilizzo sia vietato e quel tabù non si possa infrangere.
E’ vero che la scelta della parola tabù aveva anche un’altra motivazione, legata ai costumi sessuali dei polinesiani prima della colonizzazione da parte degli europei, costumi ai quali quel movimento si richiamava allorché auspicava il libero amore e suggeriva di denudarsi integralmente sulle spiagge.
In realtà una guerra ai divieti portata avanti con il sogno polinesiano di sole, mare, libero amore e nudismo aveva molto più successo di una guerra ai divieti sic et simpliciter.
Il difficile viene quando non vi sia alcuno stratagemma per aggirare l’ostacolo e l’argomento non può che essere affrontato direttamente, ma farlo è tabù.
Il tema politico giudiziario scottante è, ancora una volta, quello del processo penale e del ruolo e ruolo di appartenenza del pubblico ministero. Sino a circa un anno fa il solo affrontare la discussione portava quale conseguenza l’accusa di essere «complice» degli imputati per Tangentopoli e di voler proteggere Silvio Berlusconi.
La vittoria elettorale dell’attuale Presidente del Consiglio ed il consolidamento del suo potere hanno indotto la Magistratura ad affrontare la discussione su ipotesi di cambiamento del sistema attuale.
Si registra così la posizione del Presidente dell’ANM, di Edmondo Bruti Liberati, sul n°3 della rivista “IL GIUSTO PROCESSO”, ove l’illustre magistrato si esprime in senso favorevole ad una più netta separazione delle funzioni, piuttosto che a quella delle carriere, al fine di mantenere il PM nell’alveo della cultura della giurisdizione, cioè collaboratore della ricerca delle verità piuttosto che acceso sostenitore delle tesi accusatorie.
Invero un’attenta lettura dell’articolo fa ritenere che, più che di una vera apertura, si tratti della ricerca di uno spazio mediatorio con le forze di governo al fine di preservare comunque la appartenenza del PM alla Magistratura.
Una soluzione gattopardesca non provochi modifiche sostanziali nell’ordinamento giudiziario.
Scrive infatti il Presidente Bruti Liberati: «occorre garantire una migliore specializzazione ed un più elevato livello di professionalità specifica nei magistrati chiamati ad adempiere all’uno o all’altro ruolo e prevedere un opportuno momento di valutazione nel passaggio dall’esercizio di una funzione all’altra.
Occorre inoltre adottare le misure necessarie per assicurare che tale passaggio non avvenga con modalità e in un contesto tale da poter anche solo ingenerare il dubbio che possa derivarne un’influenza negativa sull’esercizio della nuova funzione. A tale fine (a parte la considerazione che l’incompatibilità non ha ragion d’essere nelle ipotesi in cui dalle funzioni requirenti si acceda alle funzioni giudicanti civili), sembra necessario e sufficiente un meccanismo costruito attorno alla incompatibilità a livello di circondario.
Una volta adottata.opportunamente la opzione per la cd. distinzione delle funzioni occorre evitare che la concreta disciplina (anche per la durata massima della incompatibilità) possa dar luogo in realtà ad una sostanziale vera e propria separazione delle carriere ».
Pur con le riserve sopra espresse, occorre dare atto che l’articolo costituisce un passo in avanti nel dibattito sul PM in Italia, perché dimostra che anche la Magistratura si rende conto dell’esistenza di uno dei problemi denunciati da avvocati ed uomini politici, cioè quello dei frequenti passaggi di giudici da un ruolo all’altro e delle inevitabili commistioni che derivano da tale situazione.
Rimane però un tabù dialettico, quasi che si facciano delle aperture per scongiurare che qualcuno ponga sul tavolo il quesito più scottante, cioè se sia corretto il ruolo dell’accusa debba essere esercitato da uomini di legge che superano un pubblico concorso e , poi , rispondono del loro operato solo se violano delle norme disciplinari piuttosto che da uomini di legge che ottengono la fiducia popolare e, periodicamente, sottopongono il proprio operato, oltre che agli organi disciplinari, al giudizio degli elettori, così come avviene negli USA.
I legislatori italiani degli ultimi anni, di tutti i poli politici, hanno preso un indirizzo: smantellare il sistema giudiziario che trova origine nel diritto romano e nei codici napoleonici e sostituirlo progressivamente con istituti mutuati dal diritto anglosassone.
Ergo un avvicinamento al sistema giudiziario statunitense sarebbe in linea con il percorso tracciato dal legislatore e, quindi, non dovrebbe costituire uno scan- dalo discutere della fattibilità in concreto di un percorso similare per ciò che riguarda il PM.
Del resto i termini Procuratore della Repubblica hanno sostituito quelli di Procuratore del Re, i quali semanticamente volevano significare che il PM rappresenta il Sovrano, il quale esercitava i propri poteri in nome del popolo.
Con l’avvento della Repubblica, ai sensi dell’art. 101 Cost., la Giustizia è esercitata in nome del popolo e, quindi, non appare teoricamente incostituzionale un sistema che stabilisca che l’azione penale venga da giuristi eletti direttamente da quest’ultimo.
Alcuni uomini politici, in particolare della Lega Nord, avevano in più di una occasione minacciato di presentare progetti di legge in tal senso, ma una ricerca tra gli atti parlamentari ha dato esito negativo.
Il che significa che si sbandiera il tabù più per minacciare, che per reale volontà di aprire un dibattito culturale su un’ipotesi che non è un’eresia, ma solo la scelta di una nazione che viene considerata, a torto o a ragione, come il simbolo della democrazia dell’ultimo secolo.

di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma

 
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