La sentenza della
Corte d’Assise di
Appello di Perugia
che ha condannato il sen.
Giulio Andreotti a 24 anni
di reclusione per essere
il mandante dell’omicidio
del giornalista Mino Pecorelli
è sicuramente una
di quelle decisioni destinate
ad entrare nella storia
e non solo per il fatto
in sé, ma per le reazioni
che ha provocato e per le
scelte che la classe politica
potrebbe prendere in
dipendenza del proprio
stato emotivo.
La sentenza della
Corte d’Assise di
Appello di Perugia
che ha condannato il sen.
Giulio Andreotti a 24 anni
di reclusione per essere
il mandante dell’omicidio
del giornalista Mino Pecorelli
è sicuramente una
di quelle decisioni destinate
ad entrare nella storia
e non solo per il fatto
in sé, ma per le reazioni
che ha provocato e per le
scelte che la classe politica
potrebbe prendere in
dipendenza del proprio
stato emotivo.
E’ opportuno precisare
che, chi scrive, è epidermicamente
portato a non
credere che Giulio Andreotti
possa essere il
mandante di un omicidio,
così come è razionalmente
portato a credere che
l’accusa nei suoi confronti
dei PM di Palermo di
concorso esterno in associazione
mafiosa trovi
origini di natura politica
e, soprattutto, che Giulio
Andreotti sia un uomo
troppo intelligente per dare
un bacio a Totò Riina.
Tuttavia la cultura giuridica
di un avvocato porta
alla consapevolezza che
l’epidermide non è un
corretto strumento di valutazione
delle decisioni
giudiziarie, in particolare
allorché queste ultime riguardano
episodi nei quali
la discrezionalità dei Magistrati
è inferiore a quella
che essi hanno in ipotesi
delittuose di natura politica,
sociale o religiosa,
quale possono essere le
diffamazioni, i reati contro
il pudore o, anche, quelli
di concorso esterno in organizzazioni
criminali
(quale è l’avvocato che
non si sia mai domandato
quale sia l’esatto limite tra
la difesa del proprio cliente
ed il suo favoreggiamento?).
Pertanto il fatto che Romolo
Reboa ed altri milioni
di Italiani siano intimamente
convinti che Giulio
Andreotti non possa essersi
macchiato di un così
grave delitto non equivale
ad affermare che tale fatto
non sia avvenuto né potrebbe
essersi verificato:
in sintesi, in assenza della
lettura della decisione dei
Giudici di Perugia nessuno
è realmente in grado di
affermare che essi abbiano
errato.
E qui nascono le inquietudini
delle quali si parla nel
titolo di questo scritto. Il
dopo sentenza, infatti, è
stata una delle pagine da
annotare da parte dei cronisti
delle vicende giudiziarie,
evindenziandola
con i pennarelli di tutti i
colori esistenti perché non
rimanga anonimamente
seppellita tra milioni di
notizie.
Non era mai successo, infatti,
che il supremo garante
della legge, cioè il
Capo dello Stato e Presidente
del Consiglio Superiore
della Magistratura,
telefonasse ad un neo condannato
per un delitto comune
per ricordare a lui ed
alla nazione che la giurisdizione,
in Italia, si fonda
su tre gradi di giudizio e
che, dopo Perugia, vi è la
Cassazione, a Roma.
Il Presidente Ciampi non
ha detto nulla che non sia
giuridicamente corretto, né
ha ricordato principi nuovi,
atteso che gli stessi si rinvengono
nella Costituzione
della Repubblica sin dalla
sua prima scrittura.
Il fatto è che, in un precedente
episodio che investì
un’alta carica dello Stato,
la notifica al Presidente del
Consiglio in carica di un
avviso di garanzia per reati
sicuramente meno gravi
dell’omicidio, l’allora Presidente
della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro, tenne
un comportamento diverso,
malgrado si trattasse
non già di una condanna
per omicidio, ma della
semplice comunicazione di
inizio di un indagine.
E’ vero che, allora, il Capo
dello Stato era un’altra persona
che non godeva certamente
del medesimo consenso
popolare dell’attuale,
tuttavia la memoria non ricorda
analoghi interventi
del Presidente Ciampi,
malgrado il fatto che i casi
in cui la magistratura si
trovi a giudicare uomini
politici non sia infrequente.
Considerato che, oltre al
Capo dello Stato, hanno
espresso pubblicamente la
loro solidarietà a Giulio
Andreotti quasi tutti gli
esponenti politici di entrambi
gli schieramenti,
non può non ritenersi legittimo
il sospetto che hanno
molti cittadini, cioè che la
preoccupazione della classe
politica sia stata quella
di tranquillizzare il sen.
Andreotti, ricordandogli
che esiste un comune desiderio
(o volontà?) che la
Cassazione lo mandi assolto
e che quello di Perugia è
solo un incidente di percorso.
E’ chiaro che se ciò è vero,
come sembra, la classe politica
teme qualcosa.
La rivista OP non aveva
pubblicità, ma era piena di
notizie clamorose, tanto
clamorose che si è affermato
che la fonte di informazione
principale del
giornalista assassinato fossero
i servizi segreti, non è
ben noto se quelli legittimi
o quelli deviati rispetto ai
loro fini istituzionali.
Il delitto Pecorelli rimane
un mistero anche sotto un
altro profilo: raramente si è
visto come l’assassinio di
un giornalista sia stato «accettato
» dalla categoria cui
apparteneva la vittima,
quasi che il direttore di OP
non fosse uno di loro, ma
un personaggio la cui morte
rientrava nella logica
delle cose per quello che
scriveva.
E, infatti, chi leggeva OP
capiva che Mino Pecorelli
non sarebbe invecchiato...
Anche oggi, dopo vent’anni,
si discute se la condanna
di Giulio Andreotti sia o
meno giusta, ma nessuno
ha il coraggio di affermare
pubblicamente che un uomo
che era armato solo di
una penna, un giornalista,
è stato assassinato e lo
Stato, dopo tutto questo
tempo, ha un’unica preoccupazione:
ricordare che
giustizia deve ancora essere
fatta.
E se la Cassazione affermerà
l’innocenza del sen.
Andreotti, sostanzialmente
la giustizia sarà stata in
grado di affermare solo
che Pecorelli è morto per
quello che scriveva, cioè
che, di fatto, si è suicidato.
La storia d’Italia del XX
secolo è iniziata con un regicidio
e si è evoluta attraverso
omicidi politici.
Il delitto Matteotti ed il
successivo discorso del 3
Gennaio 1925 segnano la
svolta tra il fascismo parlamentare
e la dittatura,
ma lo stato di diritto almeno
punì i suo responsabili.
L’assassinio di Mussolini e
della Petacci è stato considerato
un atto di
«giustizia», ma almeno chi
lo ha commesso se ne è
assunto la responsabilità
politica.
Pecorelli non era un re, né
un deputato, né un capo di
governo: qualunque decisione
assumerà la Cassazione
egli però rimarrà
sempre vittima di uno stato
incapace di fare giustizia.
di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma