I recenti arresti operati
dalla Magistratura nell’ambito
dell’inchiesta
sulla sezione fallimentare
del Tribunale di Firenze
pongono all’attenzione
nazionale una problematica
che questa testata esamina
da alcuni mesi senza
esservi stata indotta da
eventi di rilevanza penale:
quello della trasparenza
degli incarichi giudiziari.
I recenti arresti operati
dalla Magistratura nell’ambito
dell’inchiesta
sulla sezione fallimentare
del Tribunale di Firenze
pongono all’attenzione
nazionale una problematica
che questa testata esamina
da alcuni mesi senza
esservi stata indotta da
eventi di rilevanza penale:
quello della trasparenza
degli incarichi giudiziari.
Chi scrive si augura che
presto, nella patria di
Dante Alighieri, si dimostri
infondata l’accusa dell’esistenza
di connivenze
tra magistrati assegnati alla
sezione fallimentari,
professionisti e curatori di
fallimenti.
L’eventuale assoluzione di
tutti gli indagati non risolverebbe
però il problema
di natura politico / amministrativa
posto dalla clamorosa
iniziativa della
Procura della Repubblica,
cioè quello delle modalità
di assegnazione degli incarichi
da parte della Magistratura.
Nelle curatele fallimentari,
così come negli arbitrati
e negli altri incarichi
minori o meno conosciuti,
il giudice spesso racchiude
in sé la medesima persona
fisica che assegna
l’incarico (o approva le
proposte delle persone da
lui nominate), controlla
l’operato del proprio coadiutore
e, poi, liquida i
compensi in maniera di
fatto discrezionale.
Nella maggioranza dei casi
il tutto avviene in perfetta
buona fede e nel rispetto di
quei canoni di onestà propri
delle persone che rivestono
tali alti incarichi, ma
alcune volte i sani principi
non sono sufficienti a preservare
l’essere umano da
errori, mentre altre volte le
cosiddette mele marce
hanno fatto sì che i giornali
parlassero della mafia di
questa o quella sezione di
un ufficio giudiziario.
Anche perché, in molti casi,
non è sufficiente che il
giudice sia una persona
onesta e non commetta errori,
atteso che egli non
può fisicamente gestire o
anche solo controllare tutto
ciò che ruota intorno determinati
affari delicati. E
l’esperienza insegna che,
per certe cose, è più utile
un usciere che un dirigente...
L’entità dei compensi di
una persona nominata
componente o presidente
di un collegio arbitrale di
medio valore economico
supera abbondantemente il
reddito annuo di un «normale
» professionista, così
come un fallimento con un
rilevante attivo può consentire
al suo curatore di
acquistare un appartamento
con le parcelle a lui
spettanti.
Se poi ai compensi previsti
dalle tabelle si aggiunge il
fatto che vi possono essere
per il curatore dei «ritorni»
dall’aver «sponsorizzato»
la nomina di questo o quel
professionista per degli incarichi
(anche di difesa) la
utilità dei quali magari appare
dubbia agli osservatori
competenti, sarà facile anche
per il semplice cittadino
comprendere, ad esempio,
perché le sezioni fallimentari
dei tribunali siano
spesso additate a sospetto.
Altre sezioni sono finite sui
giornali per fatti ai quali la
figura del giudice è totalmente
estranea: è infatti
sufficiente che, da un fascicolo
depositato in cancelleria,
«sparisca» una perizia
di un’immobile sottoposto
ad esecuzione perché la
vendita si blocchi, mentre
una descrizione dello stato
del bene eccessivamente
«pessimista» potrà facilmente
scoraggiare i potenziali
acquirenti. Ciò non è
una novità per il legislatore,
che non a caso nel codice
penale ha previsto il reato
di turbativa d’asta.
Di fronte a fatti ad essa
estranei, quali le «sparizioni
» di documenti, la Magistratura
si sta difendendo
con l’informatica, come dimostra
la recente scannerizzazione
dei fascicoli delle
sezioni immobiliari, mentre
di fronte ai criteri delle assegnazioni
degli incarichi
l’interlocutore trova un tabù
dialettico, quasi che, parlandone,
commetta un peccato
di lesa maestà.
Probabilmente, così come
lo fu allorché l’opinione
pubblica affrontò la questione
degli incarichi arbitrali
ai magistrati, il problema,
per essere risolto, non
può essere posto su scala
locale, ma deve essere affrontato
dal legislatore a livello
nazionale.
E’ sicuramente inaccettabile
che, nell’era dell’informatica
e della cosiddetta trasparenza,
per verificare se quel
curatore, quel perito o quell’avvocato
abbiano ricevuto
uno o cento incarichi, magari
tutti dal medesimo giudice,
occorra una indagine
della Procura della Repubblica.
Nessuno, nemmeno i presidenti
dei tribunali (almeno
nei grandi fori), è in grado
di conoscere il giro di affari
che trova origine dalle nomine
giudiziarie.
E non si tratta solo di grandi
arbitrati o curatele fallimentari,
ma di una miriade
di piccoli e medi incarichi
dei quali nulla si conosce.
La nomina di un amministratore
di condominio avviene
in caso di incapacità
dell’assemblea a cura del
Tribunale, così come quella
di un curatore di un’eredità
giacente. E, ancora, circa il
50% delle cause civili vede
l’intervento di un CTU,
cioè di un professionista
(commercialista, ingegnere,
geometra, ecc.) che redige
una perizia tecnica o contabile
o stima un bene.
Altrettanto avviene nel processo
penale, ove poi vi sono
le amministrazioni dei
beni degli imputati sospetti
di reati mafiosi che sono gli
incarichi più lucrosi (oltre
che pericolosi).
Per accedere ad alcuni incarichi
è necessario essere
iscritti nell’elenco dei con-
sulenti tecnici (o dei periti)
dell’ufficio giudiziario,
mentre per accedere ad altri
è sufficiente segnalare la
propria disponibilità. In entrambi
i casi, in assenza di
un’opera di «lobbismo», è
molto difficile che il professionista
sia chiamato a
svolgere alcunché di rilevante
economicamente.
Ciò, sotto alcuni profili, è
naturale, in quanto il giudice
dovrebbe nominare professionisti
affidabili e tale
requisito si acquisisce solo
attraverso la conoscenza
personale: tuttavia l’esperienza
insegna che, molte
volte, i nominati sono abili
solo a procacciare incarichi
a loro stessi piuttosto che a
svolgere il loro lavoro.
A tutela della figura della
immagine della medesima
Magistratura occorre quindi
una regolamentazione
nazionale per le assegnazioni
che tenga conto del
valore degli incarichi e dei
livelli di capacità in dipendenza
di titoli, anzianità e
organizzazione professionale,
risultati, con un registro
contenente l’annotazione
dei risultati medesimi
e del numero degli incarichi
Forse, così, Firenze sarà
utile per uscire da una selva
oscura cui Dante appare
estraneo.
di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma