Riflessioni sull'eutanasia
In chi cura persone affette
da patologie gravi
(che alcune volte diventano
incurabili), il concetto
di prolungare la vita
oltre ogni limite si scontra
con quello di chi vuol mettere
fine alle loro sofferenze.
L’insegnamento che
sento di dover trasmettere
a chi abbraccia la professione
medica e ai miei studenti
di medicina e odontoiatria
è l’antico ma sempre
valido: «Primum non
nocere». Quante volte il richiamarsi
ad esso nella
professione medica fa si
che si scelga la via ardua
di non abbattersi mai, di
non lasciarsi sopraffare
dallo sconforto, di essere sempre pronti a lottare per sconfiggere il male. Il
medico deve esercitare la sua professione per debellare la malattia e ove questo
non sia possibile, adoperarsi per migliorare lo stato di salute generale.
“Non nocere” è un principio dal quale non si può in nessun caso prescindere.
L’eutanasia è l’esatto opposto, è “nocere”. E’ predisporre un incontro anticipato
con la morte. Quale motivazione può spingere a tanto?
La disperazione dei parenti o la richiesta pietosa del malato sono elementi
sufficienti ad indurre il medico ad andare contro i principi morali, etici, religiosi,
professionali sui quali è basata la professione medica? Far morire significa
uccidere. E’ questo “non nocere”? Il voler decidere della vita e della
morte somiglia ad una grottesca prova di potere di chi si sente onnipotente e
simile a Dio. La fede che alberga in ognuno di noi deve essere la molla che
fa scattare il desiderio di salvare, alleviare, confortare chi, colpito dal dolore
e dalla malattia, chiede di non soffrire. Chi chiede di morire in realtà teme la
morte e non la desidera affatto. Quello che invece chiede è che vengano alleviate
le sue sofferenze fisiche utilizzando tutti i mezzi a disposizione degli
operatori. Il medico ha il dovere secondo me, di insistere oltre ogni limite
nella ricerca della cura e del prolungamento della vita. Accanimento terapeutico
forse, ma ritengo dovere del medico insistere nella ricerca. Il dovere
etico, morale e professionale è di adoperarsi per il raggiungimento dello stato
di salute. Mai, dico mai, è ipotizzabile il fine di porre drasticamente fine
alla vita. Argomento attinente
correlato e di grande
attualità, è quello relativo
ai trapianti. Grande passo
avanti per la scienza che,
utilizzando organi prelevati
da un paziente “clinicamente
morto” (che presenta
ECG piatto per sopravvenuta
morte fisiologica),
consente per mezzo dell’impianto,
la vita ad un
esse umano che stava per
perderla. Attenzione però
al rigore dei disciplinari,
altrimenti si corre il rischio
di creare precedenti pericolosi
a cui persone motivate
da principi che dall’etica
molto si discostano,
potrebbero attingere.
Giuseppe Maria Pagliucci
Titolare dell’insegnamento di Patologia
Chirurgica presso l’Università
di Tor Vergata (Roma), responsabile
dei servizi di Ipertermia Clinica del
Policlinico di Tor Vergata