Vincenzo Apicella: «per realizzare una buona amministrazione della cosa pubblica,
è necessario innanzi tutto tenere fermi i valori morali della tradizione nazionale: su tutti,
inderogabilmente, quelli fondati sulla cultura del lavoro, del dovere e della solidarietà»
La relazione annuale
del Procuratore Generale
della Corte
dei Conti Vincenzo Apicella
ha descritto una situazione
della pubblica amministrazione
piuttosto deludente,
sulla base dei dati
ottenuti dalla Corte nell’esercizio
della sua attività.
Sotto il profilo dell’efficienza,
secondo Apicella
«l’analisi dei dati concernenti
il quadro dei risultati
delle funzioni di controllo
e di giurisdizione della
Corte mostrano, non solo
oggi, – ma, direi, da oltre
un quarantennio – la diffusa
presenza, nella macchina
burocratica pubblica, ed
anche nel tessuto normativo,
di inadeguatezze e di
insufficienze, di lacune e di
omissioni, di errori e di disattenzioni,
di lentezze e di
ritardi, che, alla fine, producono
risultati deludenti
in relazione ai fini voluti».
Apicella vede un preciso
parallelismo tra i fenomeni
di spreco rilevabili nel settore
privato e in quello
pubblico, specie per le cause
che li determinano: lunghe
attese improduttive, ripartizioni
irrazionali di
competenza, procedure
inutili e troppo costose, sovrapposizioni
di normative,
duplicazioni di interventi
operativi, trascuratezze
nell’acquisizione delle entrate
e nella riscossione dei
crediti.
Apicella fa salvo il lavoro
del Secit, della Ragioneria
dello Stato, l’Autorità di
Vigilanza sui Lavori Pubblici
e aggiunge che «non
può dirsi che sia mancata
l’attenzione di politici e
l’impegno di molti amministratori,
come neppure
sono mancate le riforme».
Un ultimo importante riferimento
contenuto nella relazione
riguarda le recenti
riforme costituzionali e legislative:
«Ora, nel momento
in cui l’Ordinamento
della Repubblica si
muove verso scelte federaliste,
mi sento sollecitato
ad esprimere un altro convincimento,
e sono sicuro
di non cadere nella retorica,
quello che tale storica
evoluzione potrà trovare,
anche sotto il profilo finanziario-
contabile, un giusto
e felice assetto solo nella
tutela del non inconciliabile
principio dell’unità della
Nazione, quel principio
che resta, e penso resterà,
sancito nella Costituzione
all’articolo 5: là dove i Padri
Costituenti hanno voluto
raccogliere l’antico e
collaudato concetto, ad un
tempo politico e giuridico,
dell’unità e della indivisibilità
della Repubblica.
Questo principio, da due
secoli, è un cardine delle
democrazie, in quanto presidio
di un’ordinata e coordinata
gestione degli interessi
di una collettività di
cittadini che si trovano per
ragioni storiche, geografiche,
etniche ed anche economiche,
nell’onorevole e
nobile necessità, perché tale
è, di costituirsi in Nazione,
e specialmente di sentirsi
Nazione».
Di Andrea Trunzo