Il conflitto filosofico della “dolce morte”. Un pensiero libero sull’uomo e la morte
E’bene soffermarsi
un po’ su questo
argomento per
l’incertezza che regna sovrana
nei parenti dei pazienti
gravi e per il concetto
che si alterna tra il
personale medico e paramedico
nella definizione
esatta di “accanimento”.
La parola è già bruttissima
e dà l’impressione di qualcosa
di negativo, quando
invece consiste in uno
sforzo, talora ai limiti della
resistenza, di sanitari
che non vogliono dire,
o lo vogliono dire
il più tardi possibile,
che è “finita”.
Cosa è “finita”? La battaglia
per la vita, e, prescindendo
dai casi dei risvegli
imprevedibili che richiederebbero
una discussione
lunga a parte, ma limitandoci
brevemente ai pazienti
tumorali o in preda
a malattie non guaribili
nei riguardi dei quali necessita
un particolare riguardo
professionale, morale,
umano e fisico.
Penso e credo che con me
tanti sanitari siano d’accordo,
che il concetto di
“mantenere in vita” debba
essere il primo ineludibile
e mai trascurabile “memento”
per cui non si è
degni di chiamarsi medici
o infermieri se lo si rinnega.
Dal concetto dell’aborto,
definito “olocausto” da
Sua Santità, alla decisione
di staccare la spina o di
abbandonare le cure possibili,
riducendo ad un morfinodipendente
il paziente,
c’è una bellissima strada:
il tentare il possibile senza
nascondersi dietro un dito,
dicendo «ma tanto non si
può guarire», arrogandosi
il diritto che all’uomo non
spetta,
quello di vita e
di morte o di pensare
che il paziente
forse vorrebbe
continuare a
curarsi.
Ricordandosi
sempre
che
tale
evento
può succedere
a
ciascuno
di noi, nei
momenti
della decisione
che il
medico deve prendere ritengo,
senza tema di
smentita da chi fa il medico
sul serio, che tutte le
vie vanno intraprese, che
quando la sofferenza (che
solo la fede può aiutarci
spesso a comprendere) induce
anche il paziente a
“scegliere la morte”, si
può diventare corresponsabili
anche moralmente
di eventuali suicidi o della
negazione della “speranza” che nella vita ci fa superare
tanti ostacoli.
Concluderei sostenendo
che la vita va protetta al
massimo; qualora il paziente
non fosse cosciente,
e si presumesse con competenza
e coscienza che
stesse soffrendo oltre i limiti
della sopportazione,
nonostante le cure assai
progredite, i parenti si dovrebbero
assumere la responsabilità,
sempre, di
sospendere quell’alito di
vita che potrebbe, anche
all’improvviso, trasformarsi
in miglioramento,
stabilizzazione in meglio
o in guarigione.
di Giuseppe Maria Pigliucci
Titolare dell'insegnamento di Patologia e Terapia Chirurgica, Responsabile del servizio ambulatoriale di Ipertermia clinica del Policlinico dell'Università Tor Vergata di Roma