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Editoriali: Il processo infinito
Posted by Reboa on Friday, October 20 @ 18:17:11 CEST
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Il Presidente della Repubblica ha rinviato alla Camere la legge approvata dal Parlamento sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del Pubblico Ministero. La storia della Repubblica insegna che del potere di cui all'art. 74 Cost. è stato fatto un uso limitato, sia perché tra i Governi ed il Quirinale è invalsa la prassi delle consultazioni preventive, le quali hanno risolto ab origine molti contrasti, sia perché un suo esercizio continuo farebbe venir meno al Presidente la funzione di rappresentante dell'unità nazionale prevista dall'art. 87 Costituzione, ponendolo in conflitto con il Parlamento e con il Governo che ne è espressione. Quindi la scelta del Presidente Ciampi di rinviare alle Camere la cosiddetta “legge Pecorella”, di per sé giuridicamente legittima, merita una valutazione politica, anche alla luce del fatto che il rinvio è avvenuto in prossimità dello scioglimento del Parlamento e, quindi, con la consapevolezza che l'effetto concreto potrebbe essere non la modifica della normativa da parte delle Camere, ma il suo affossamento.
Diverso sarà quindi il giudizio politico ove il lettore faccia o meno proprie le considerazioni di costituzionalità e di incongruenza di alcune norme con riferimento al sistema che si leggono nel messaggio del Presidente Ciampi.
Non vi è dubbio che alcune considerazioni del Presidente della Repubblica con riferimento alla mancata omogeneità della legge approvata dal Senato il 12 Gennaio con il restante corpus normativo siano giuridicamente condivisibili dalla maggioranza degli operatori del diritto, ma esse di per sé non appaiono sufficienti per avallare politicamente l'iniziativa presidenziale: infatti sono decenni che il Parlamento sforna leggi tecnicamente mal fatte ed i Capi dello Stato le firmano, senza aver trasformato il Quirinale in un supremo ufficio legislativo correttivo delle incapacità tecniche di deputati e senatori.
E ciò non perché tale attività non sarebbe teoricamente meritoria, ma per il semplice fatto che a ciò è preposta ex post la Corte Costituzionale e che gli interventi dovrebbero eseguirsi sulla maggioranza delle norme, fatto che porterebbe Parlamento e Presidenza della Repubblica ad un conflitto continuo.
Il giudizio politico sull'iniziativa del Presidente Ciampi non può che aversi con riferimento alle sue considerazioni di ordine costituzionale e, quindi, ai richiami agli artt. 97 e 111 Cost., cioè ai principi di buon funzionamento della Pubblica Amministrazione e del giusto processo.
L'art. 97 Cost. è stato richiamato dal Capo dello Stato in adesione alle censure alla riforma espresse dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, secondo il quale la nuova normativa avrebbe ingolfato il Supremo Ufficio Giudiziario.
Chi scrive non è in possesso di dati che consentano di confermare o smentire il parere di tale autorevole magistrato: tuttavia è ovvio che, se la riforma avrebbe ingolfato la Cassazione, avrebbe liberato di lavoro le Corti di Appello penali.
Quando furono abolite le Preture, figlie del diritto romano, in favore di un giudice unico avulso dal territorio ed istituiti i G.O.A, la riforma non venne rinviata alle Camere, malgrado gli appelli dell'Avvocatura facessero presente all'allora Capo dello Stato che le Corti di Appello civili sarebbero state pressoché paralizzate (evento puntualmente verificatosi) e venisse invocato il principio di cui all'art. 97 Cost..
Il che significa o che la voce del Presidente Marvulli vale più di quella di 70.000 avvocati e dei Presidenti delle Corti di Appello, o che il Presidente Ciampi è più sensibile alle problematiche del funzionamento di alcuni uffici rispetto ai suoi predecessori, o, ancora, che il Capo dello Stato è incorso in un eccesso di motivazione, forse nell'incertezza se gli Italiani condividano il suo giudizio sulla questione fondamentale che sta dietro la bocciatura della riforma, cioè la parità tra accusa e difesa, sancita dall'art. 111 Cost..
Tale parità, ad avviso del Presidente Ciampi verrebbe ad essere alterata dall'impossibilità per il PM di appellare le sentenze di assoluzione, mentre tale diritto rimane concesso all'imputato.
Malgrado il Capo dello Stato riconosca che il «sistema delle impugnazioni può essere ripensato alla luce dei criteri ispiratori del codice vigente dal 1989», cioè il rito accusatorio, lascia perplessi la affermazione «le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione», utilizzata di fatto per sostenere che, con le nuove norme, si creerebbe una disparità in favore della difesa ed in danno del PM.
Non può sottacersi il timore che la campagna elettorale improntata contro la figura dell'attuale premier Berlusconi e l'accusa che la nuova legge lo avrebbe favorito possa aver condizionato psicologicamente in maniera negativa anche il Capo dello Stato, facendogli trascurare altri elementi, quali, ad esempio, quello che la riforma andava a beneficio di im- putati aventi una capacità economica limitata e, quindi, non in grado di sostenere grandi oneri di difesa.
Il momento della parità formale tra le parti è il dibattimento, dove però l'imputato giunge in dipendenza della accusa formulata da uno o più magistrati, i quali si sono potuti avvalere degli strumenti più costosi (polizia giudiziaria, pedinamenti, perquisizioni, intercettazioni, rogatorie all'estero, esperimenti di laboratorio, ecc.).
Il tutto, stipendi dei PM compresi, a spese dello Stato accusatore. Se al momento della discussione il PM non sia stato in grado di dimostrare ad un suo collega la colpevolezza di chi ha voluto a giudizio, costituisce violazione della parità delle parti imporgli di non continuare ad utilizzare la supremazia del suo ruolo contro colui che era sin dall'inizio costituzionalmente un presunto innocente?
In nazioni sicuramente democratiche quali Stati Uniti ed in Inghilterra l'inappellabilità della sentenza di assoluzione è la regola: e lì, ove la parità tra accusa e difesa non è solo teoria, la Procura non si duole del sistema.

Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma

 
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