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Editoriali: Pro domo mea
Posted by Reboa on Monday, October 23 @ 17:17:40 CEST
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Quando, studente liceale, fui chiamato a leggere in latino (e tradurre) le orazioni di Marco Tullio Cicerone, tra le quali la famosa «pro domo sua» pronunciata nel 57 a.C., formulai definitivamente la mia scelta di vita. Il mio futuro sarebbe stato l'avvocatura.
Marco Tullio Cicerone che torna dall'esilio ed appassionatamente chiede la restituzione della sua casa, e con essa la sua dignità di uomo pubblico, è il simbolo dell'avvocatura libera.
La strenua difesa della Repubblica pagata con la vita, l'intima convinzione che la legalità ed il foro siano l'unico strumento di Giustizia fanno di Marco Tullio Cicerone il punto di riferimento di chiunque abbia i medesimi valori, così come la congiura politica di cui egli fu ripetutamente vittima non potranno che far comprendere ai posteri come sia rischioso per un avvocato affidarsi, in concreto, a tali valori.
Vi è chi preferisce il denaro e, per esso, è disponibile a scendere a qualsiasi compromesso e chi preferisce una vita meno comoda, ma piena di soddisfazioni: il successo nella difesa dell'altrui diritto e della legalità nella maggioranza degli avvocati paga molto di più dell'incasso di una parcella.
Non a caso i regimi mortificano chi esercita la difesa, tentando di ridurlo a comprimario di un dramma chiamato processo.
Non sono solito utilizzare le pagine del giornale che dirigo da oltre trenta anni per parlare di fatti personali: tuttavia i comportamenti di altri giornalisti, i quali scrivono su testate più diffuse, mi costringono a difendere non già la mia casa, ma la verità e la mia figura professionale di fronte a coloro i quali mi conoscono e mi leggono ogni mese.
Le pagine di InGIUSTIZIA non potranno certamente raggiungere i milioni di persone che hanno ascoltato il mio nome ai telegiornali, ma esse consentiranno almeno ad informare chi mi conosce che il rispetto per le istituzioni non significa supina accettazione del ruolo di vittima sacrificale sull'altare di un teorema sbagliato.
Mi sto riferendo alle notizie giornalistiche relative ad una nota inchiesta giudiziaria nella quale sono intervenuto quale avvocato difensore di un candidato, il quale aveva interesse al regolare svolgimento delle elezioni regionali del Lazio del 2005.
Nell'ambito di tale mandato ho richiesto il rilascio di una serie di documenti a pubblici uffici al fine di verificare se effettivamente esistevano gli elementi per sostenere la fondatezza della ipotesi accusatoria formulata dal mio assistito.
In tutte le richieste è stato precisato il motivo per le quali venivano formulate e l'urgenza connessa alla materia elettorale: la Pubblica Amministrazione ha valutato tutte le istanze, accogliendole con la celerità connessa al caso.
Il tutto è avvenuto in maniera documentale e la documentazione probatoria della irregolarità di una lista è stata da me presentata alla Procura della Repubblica dopo circa due ore dal suo rilascio da parte della struttura della Regione Lazio.
Con analoga celerità la Magistratura inquirente ha verificato la rispondenza delle affermazioni del mio assistito a verità e la Corte di Appello ha escluso la lista dalla partecipazione alla competizione elettorale.
Dopo varie vicende giudiziarie il TAR del Lazio ha confermato il provvedimento di esclusione, mentre la Procura della Repubblica ha utilizzato le informazioni ricevute per richiedere ed ottenere la condanna della persona che essa ha identificato quale autore materiale del reato, la quale ha confessato e chiesto di patteggiare la pena.
Un avvocato si aspetterebbe di ricevere il plauso non solo dal proprio assistito, ma anche dall'Autorità Giudiziaria, spesso abituata a leggere esposti e denunce non supportati da materiale probatorio.
In questo caso, però, il Comune di Roma ha contestato alla Regione Lazio la legittimità dell'estrazione della documentazione consegnata al professionista (e girata alla Magistratura) in dipendenza di una convenzione tra i due enti pubblici. Così la Procura della Repubblica ha aperto un'altra inchiesta parallela e, aderendo di fatto alla tesi del Comune di Roma, ha ritenuto di chiedere al Giudice di valutare se il professionista che aveva formulato l'istanza all'ente regionale debba essere considerato un «istigatore» della commissione del reato informatico di cui sono stati accusati due dipendenti dell'ente.
In punto di diritto è evidente che la Procura della Repubblica ha in sé un criterio interpretativo molto restrittivo dei poteri di indagine difensiva attribuiti dalla recente normativa agli avvocati e, quindi, in assenza di giurisprudenza in materia, ha ritenuto di farlo valere.
E' chiaro che, sia quale avvocato che per lo scomodo ruolo in cui mi trovo, dissento dall'impostazione della Procura, anche se ne accetto con serenità le azioni, ricordando che essa costituzionalmente rappresenta in maniera indipendente la potestà accusatoria dello Stato, mentre l'Avvocatura espleta nella libertà la difesa del cittadino.
Quindi il ruolo dell'accusato in una diversa di interpretazione di poteri rientra nel gioco delle parti e non costituisce certo un disonore per chi crede nel trionfo della Giustizia nell'ambito dello schema processuale.
In una vicenda siffatta la stampa sta utilizzando degli strumenti che la legge vuole a garanzia della difesa quale indizi di una improbabile colpevolezza, dando nomi in pasto all'opinione pubblica ed avanzando ipotesi prive di riscontro nelle carte processuali.
Le querele non mancano e non mancheranno, ma era necessario difendersi da questo processo mediatico, riaffermando la propria correttezza comportamentale, il diritto di difesa ed il ruolo centrale dell'avvocato in tale costituzionale diritto.

Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma

 
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