Quando, studente
liceale, fui chiamato
a leggere in
latino (e tradurre) le orazioni
di Marco Tullio Cicerone,
tra le quali la famosa
«pro domo sua»
pronunciata nel 57 a.C.,
formulai definitivamente
la mia scelta di vita.
Il mio futuro sarebbe stato
l'avvocatura.
Marco Tullio Cicerone
che torna dall'esilio ed
appassionatamente chiede
la restituzione della
sua casa, e con essa la
sua dignità di uomo pubblico,
è il simbolo dell'avvocatura
libera.
La strenua difesa della
Repubblica pagata con la
vita, l'intima convinzione
che la legalità ed il foro
siano l'unico strumento
di Giustizia fanno di
Marco Tullio Cicerone il
punto di riferimento di
chiunque abbia i medesimi
valori, così come la
congiura politica di cui
egli fu ripetutamente vittima
non potranno che
far comprendere ai posteri
come sia rischioso
per un avvocato affidarsi,
in concreto, a tali valori.
Vi è chi preferisce il
denaro e, per esso, è
disponibile a scendere a
qualsiasi compromesso e
chi preferisce una vita meno
comoda, ma piena di
soddisfazioni: il successo
nella difesa dell'altrui diritto
e della legalità nella
maggioranza degli avvocati
paga molto di più dell'incasso
di una parcella.
Non a caso i regimi mortificano
chi esercita la difesa,
tentando di ridurlo a comprimario
di un dramma
chiamato processo.
Non sono solito utilizzare
le pagine del giornale che
dirigo da oltre trenta anni
per parlare di fatti personali:
tuttavia i comportamenti
di altri giornalisti, i
quali scrivono su testate
più diffuse, mi costringono
a difendere non già la
mia casa, ma la verità e la
mia figura professionale di
fronte a coloro i quali mi
conoscono e mi leggono
ogni mese.
Le pagine di InGIUSTIZIA
non potranno certamente
raggiungere i milioni
di persone che hanno
ascoltato il mio nome ai
telegiornali, ma esse consentiranno
almeno ad informare chi mi conosce
che il rispetto per le istituzioni
non significa supina
accettazione del ruolo di
vittima sacrificale sull'altare
di un teorema sbagliato.
Mi sto riferendo alle notizie
giornalistiche relative
ad una nota inchiesta giudiziaria
nella quale sono
intervenuto quale avvocato
difensore di un candidato,
il quale aveva interesse
al regolare svolgimento
delle elezioni regionali del
Lazio del 2005.
Nell'ambito di tale mandato
ho richiesto il rilascio di
una serie di documenti a
pubblici uffici al fine di verificare
se effettivamente
esistevano gli elementi per
sostenere la fondatezza della
ipotesi accusatoria formulata
dal mio assistito.
In tutte le richieste è stato
precisato il motivo per le
quali venivano formulate e
l'urgenza connessa alla materia
elettorale: la Pubblica
Amministrazione ha valutato
tutte le istanze, accogliendole
con la celerità connessa al caso.
Il tutto è avvenuto in maniera
documentale e la documentazione
probatoria della irregolarità di una lista
è stata da me presentata
alla Procura della Repubblica
dopo circa due ore dal
suo rilascio da parte della
struttura della Regione Lazio.
Con analoga celerità la
Magistratura inquirente ha
verificato la rispondenza
delle affermazioni del mio
assistito a verità e la Corte
di Appello ha escluso la lista
dalla partecipazione alla
competizione elettorale.
Dopo varie vicende giudiziarie
il TAR del Lazio ha
confermato il provvedimento
di esclusione, mentre la
Procura della Repubblica
ha utilizzato le informazioni
ricevute per richiedere
ed ottenere la condanna
della persona che essa ha
identificato quale autore
materiale del reato, la quale
ha confessato e chiesto di
patteggiare la pena.
Un avvocato si aspetterebbe
di ricevere il plauso
non solo dal proprio assistito,
ma anche dall'Autorità
Giudiziaria, spesso
abituata a leggere esposti e
denunce non supportati da
materiale probatorio.
In questo caso, però, il
Comune di Roma ha contestato
alla Regione Lazio la legittimità dell'estrazione
della documentazione
consegnata al professionista
(e girata alla Magistratura)
in dipendenza di una
convenzione tra i due enti
pubblici. Così la Procura
della Repubblica ha aperto
un'altra inchiesta parallela
e, aderendo di fatto alla tesi
del Comune di Roma,
ha ritenuto di chiedere al
Giudice di valutare se il
professionista che aveva
formulato l'istanza all'ente
regionale debba essere
considerato un «istigatore»
della commissione del reato
informatico di cui sono
stati accusati due dipendenti
dell'ente.
In punto di diritto è evidente
che la Procura della Repubblica
ha in sé un criterio
interpretativo molto restrittivo
dei poteri di indagine
difensiva attribuiti dalla recente
normativa agli avvocati
e, quindi, in assenza di
giurisprudenza in materia,
ha ritenuto di farlo valere.
E' chiaro che, sia quale avvocato
che per lo scomodo
ruolo in cui mi trovo, dissento
dall'impostazione
della Procura, anche se ne
accetto con serenità le
azioni, ricordando che essa
costituzionalmente rappresenta
in maniera indipendente
la potestà accusatoria
dello Stato, mentre l'Avvocatura
espleta nella libertà
la difesa del cittadino.
Quindi il ruolo dell'accusato
in una diversa di interpretazione
di poteri rientra nel
gioco delle parti e non costituisce
certo un disonore per
chi crede nel trionfo della
Giustizia nell'ambito dello
schema processuale.
In una vicenda siffatta la
stampa sta utilizzando degli
strumenti che la legge vuole
a garanzia della difesa
quale indizi di una improbabile
colpevolezza, dando
nomi in pasto all'opinione
pubblica ed avanzando ipotesi
prive di riscontro nelle
carte processuali.
Le querele non mancano e
non mancheranno, ma era
necessario difendersi da
questo processo mediatico,
riaffermando la propria correttezza
comportamentale, il
diritto di difesa ed il ruolo
centrale dell'avvocato in tale
costituzionale diritto.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma