Subito dopo che erano
stati resi noti i
dati definitivi delle
elezioni e prima della
proclamazione ufficiale
del risultato elettorale da
parte della Cassazione ho
deciso di dedicarmi ad un
esercizio abbastanza
noioso, ma estremamente
interessante: verificare
dal punto di vista normativo
se la tesi dell'ex Ministro
Calderoli della non
possibilità di conteggiare
i voti ricevuti dalla Lega
Lombarda, alleata dell'Ulivo,
avesse quelle che gli
avvocati definiscono
«gambe per camminare».
Le leggi elettorali hanno
tutte una caratteristica:
sono complicatissime da
comprendere, quasi che i
legislatori succedutisi nel
tempo abbiano tutti voluto
riservarne l'interpretazione
alla Magistratura
ed a pochi intimi, sicché
quando ci si avventura
nel loro esame si rischia
il mal di testa, oltre che
qualche accusa da parte
dell'avversario politico
del proprio cliente. La
legge 270/2005 non si distacca
ovviamente da
questa peculiarità, anche
perché si innesta nel
una modifica della normativa
elettorale precedente,
cioè il DPR 361/1957: il fatto
che tutte le molteplici
riforme in questa materia
siano avvenute attraverso
emendamenti di una legge
di circa cinquanta anni fa lascia
da solo comprendere le
difficoltà che incontra chi
tenta di avventurarcisi, anche
perché, così, è anche
difficile ricercare la poca
giurisprudenza in materia,
dato che non sarà immediatamente
comprensibile a
quale versione di un articolo
della norma essa si riferisce.
Nell'ultima versione della
norma le parole chiave per
individuare vincitori o perdenti
erano «cifra elettorale
nazionale»: quello dei due
schieramenti la avesse avuta
più alta, avrebbe avuto diritto
al premio di maggioranza
alla Camera dei Deputati e,
con esso, la possibilità di
governare. Lo spirito della
norma, attraverso una serie
di sbarramenti, era quello di
favorire le aggregazioni tra
formazioni politiche, penalizzando
le formazioni prive
di una significativa rappresentanza
a livello nazionale,
salvo il caso che appartenessero
a minoranze linguistiche.
La questione sul campo
era questa: «cifra elettorale
nazionale di coalizione» era
data dalla somma di tutti i
voti ricevuti da una coalizione,
oppure solo da quella
delle «cifre elettorali nazionali
» di ciascuna lista, a loro
volta costituita dalla somma
delle «cifre elettorali
circoscrizionali» di ciascuna
lista. Secondo Calderoli, che
era stato l'estensore principe
del progetto di legge, la
norma era chiara: parlando
di «somma delle elettorali
circoscrizionali» di ciascuna
lista il legislatore aveva voluto
porre un ulteriore sbarramento
alle liste di minoranza,
nel senso che avrebbero
potuto concorrere a
formare la «cifra elettorale
nazionale di coalizione» solo
quelle in possesso di due
addendi da sommare, cioè
quelle presenti in più circoscrizioni.
Quindi i 45.000
voti della Lega Lombarda
non avrebbero dovuto concorrere
alla formazione della
«cifra elettorale nazionale
di coalizione» e il premio
di coalizione avrebbe così
dovuto essere assegnato alla
Casa delle Libertà. Poiché
tale tesi si basava su un unico
elemento giuridico, la
presenza della parola «somma
» che, però ben può essere
interpretata anche come il
risultato di «uno più zero»,
per pronosticare se la Cassazione
avrebbe preso in considerazione
la tesi Calderoli
occorreva esaminare gli atti
parlamentari. Né tali «sofismi
giuridici» debbono stupire
o debbano far affermare
che Calderoli stava tentando
ingiustamente di non far rispettare
la volontà degli
elettori in quanto tutte le
leggi elettorali diverse da
quelle che prevedono il proporzionale
puro hanno una
caratteristica in comune: la
violazione della volontà degli
elettori e, quindi, un'ingiustizia
in nome della necessità
di assicurare la governabilità.
La lunga analisi
dei lavori di Camera e Senato
ha consentito di pervenire
ad un dato sconfortante:
malgrado si trattasse di una
legge nella quale i tecnicismi
sono prevalenti, il dibattito
parlamentare che ha
preceduto l'approvazione
della legge 270/2005 è stato
di natura pressoché eminentemente
politica, con l'Unione
che contestava il premio
di maggioranza, accusando
la Casa delle Libertà
di essersi fatta una legge a
proprio uso e consumo.
L'Unione ha conquistato il
contestato premio di maggioranza
grazie ad una risicata
«cifra elettorale nazionale
di coalizione» superiore
di circa 25.000 elettori e
con il dubbio se i conti siano
stati fatti rispettando la
volontà del legislatore, che
però non è desumibile dagli
atti parlamentari perché
nessuno si è di fatto degnato
di discutere il contenuto
di norme alle quali il loro
padre formale, l'ex Ministro
Calderoli, attribuisce un significato
diverso da quello
dato dalla Cassazione. Sarebbe
bastato che l'on. Calderoli,
in sede di discussione
della legge, ne avesse
chiarito il significato al Parlamento
perché oggi Berlusconi
prendesse il posto di
Prodi. Oppure sarebbe bastato,
più semplicemente,
non cambiare la legge elettorale e gli stessi numeri
avrebbero portato la Casa
delle Libertà di nuovo al governo.
Quando all'interno
delle assemblee legislative
l'ignoranza o l'incapacità
prevale sulla cultura e sulla
preparazione tecnica, non ci
si può né stupire né lamentare
se la Magistratura sia costretta
ad un ruolo di supplenza
nei confronti del legislatore.
Romano Prodi ha
vinto le elezioni grazie ad un
premio di maggioranza regalatogli
da Silvio Berlusconi,
il quale deve riconoscere la
propria generosità ed il fatto
che il proprio avversario ha
vinto, senza chiedere di continuare
a condividere il potere
attraverso forme diverse
da quelle volute dagli elettori.
Se il leader dell'Unione
sarà capace di tenere per
cinque anni unita una maggioranza
così eterogenea e
la Casa delle Libertà riuscirà
di non farsi logorare dall'assenza
di potere, l'Italia avrà
ricevuto una grande lezione
di democrazia. Se così non
sarà, quell'avanti miei Prodi
che oggi invoca il centro sinistra
assetato di potere ricorderà
più le avventure dei
corsari, ma consentirà al
Paese di uscire da un equivoco
che lo sta dilaniando.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma