Chi mi conosce e
chi segue da anni
questa testata o,
magari, ha letto solo il
mio articolo di fondo dello
scorso numero dal titolo
«la pistola puntata»
ben sa quanto il mio giudizio
sia negativo nei
confronti del decreto Bersani.
Osteggiare un provvedimento
non significa,
però, mettersi una benda
di fronte agli occhi per
tentare di non vedere che
ad un tale provvedimento
si è giunti non solo per la
avversione di una fetta
consistente della attuale
maggioranza per le libere
professioni, ma per l’incapacità
di queste, ed in
particolare dell'avvocatura
che appare la più colpita
dal decreto, di prendere
atto di nuove realtà e di
affrontarle allorché il suo
interlocutore era un governo
sulla carta ad esse
più favorevoli. Silvio Berlusconi
ha fatto approvare
dal governo da lui presieduto
la legge sul conflitto
di interessi, impedendo
che il legislatore a lui meno
favorevole potesse decidere
della sorte dei suoi
beni. Gli avvocati, viceversa,
si sono chiusi nel loro fortino di norme approvate
quando la società era
diversa e che si basavano su
un presupposto logico fatto
saltare da un decreto luogotenenziale,
che abolì il numero
chiuso. La legge professionale
originaria prevedeva
che il numero di avvocati
dovesse essere rapportato
a quello della popolazione,
così come avviene per i
notai. Ove quella legge non
fosse stata modificata, oggi
vi sarebbero poche migliaia
di avvocati, organizzati probabilmente
in grandi studi
che si avvarrebbero della
collaborazione di decine di
assistenti laureati in giurisprudenza.
L'organizzazione
degli uffici sarebbe stata
competitiva con quelli stranieri
ed avrebbe impedito
agli stessi occupare la fascia
di mercato delle consulenze
e dei contratti per le grandi
aziende (nella quale la patria
del diritto è importatrice di
manodopera intellettuale!),
assicurando così ai giovani
laureati opportunità lavorative
di nome meno nobili, ma
di fatto meno precarie. Le
complicate parcelle con decine
di voci relative ad attività
di routine finalizzate solo
a giustificare il raggiungimento
di un certo importo
sarebbero da tempo state sostituite
con le più semplici
tariffe orarie, che hanno il
vantaggio di far capire al cittadino
che i servizi degli
operatori qualificati vanno
pagati e che chi meno costa,
meno vale perché, se si ha
alle spalle una organizzazione
che succhia denaro ogni
mese, sotto certi prezzi non
è possibile andare. Purtroppo
prevalse il clima post bellico
ed il lucido disegno di alcune
delle forze politiche che
abbatterono il Fascismo ed
osteggiavano il fatto che i liberi
professionisti fossero la
classe dirigente del Paese:
così si aprirono le porte indiscriminatamente
e quella,
che tuttora qualcuno si ostina
romanticamente a chiamare
l'eletta schiera, è oggi
una massa di oltre 170.000
persone. Vi era il problema
dell'anacronismo del limite
di competenza territoriale
per il procuratore legale, assurdo
in presenza dei nuovi
mezzi di trasporto e comunicazione:
ancora una volta il
legislatore lo risolse con la
massificazione, abolendo la
professione ed equiparandola
a quella di avvocato. Si
potevano trovare soluzioni
diverse che avrebbero portato
ad una selezione di professionisti
e di obiettivi professionali,
anche nell'interesse
dell'utenza chiamata
ad orientarsi nella propria
scelta del professionista più
adatto al proprio caso, quali,
ad esempio, quella di stabilire
che il procuratore legale
potesse difendere solo in
primo grado: il numero dei
professionisti non consentiva
però più di togliere a Tizio
o a Caio la possibilità di
patrocinare in qualche causa
iniziata. Si è arrivati così ad
una popolazione forense in
costante crescita, che si contende
all'osso la lite più banale,
magari facendosi pagare
dal cliente in piccole rate.
O, ancora, vi sono molti che
incassano solo le liquidazioni
delle spese da parte delle
compagnie di assicurazioni,
dopo essersi moralmente
prostituiti con i loro agenti
per ottenere che gli indirizzino
i clienti.
In questi casi la parcella minima
che stiamo difendendo
come dichiarazione di principio
già non esiste più, è
solo un paracadute nell'ipotesi
in cui il cliente voglia
«fare il furbo» e non pagare
l'avvocato. Così come non
esiste la dignità della toga,
con avvocati negli uffici sinistri
in fila ore con il numeretto
in mano per poter parlare
con il liquidatore di turno.
Dobbiamo avere il coraggio
di renderci conto che
il patto di quota lite, sino a
ieri illegale, in realtà era una
costante nelle cause assicurative.
Una massa di
170.000 persone, se sfilasse
con le proprie famiglie a via
Arenula, potrebbe far cadere
qualsiasi governo e, quindi,
trattare in posizione di forza.
Siamo però una massa disomogenea,
nella quale la
maggior parte di noi è ammalata
di protagonismo e
che, nonostante tutto, riesce
a trarre dal proprio orticello
il necessario per far vivere
dignitosamente una famiglia.
Amiamo parlarci addosso,
come si dice a Roma,
ma non siamo né concreti né
siamo stati capaci di crearci
una rappresentanza politica
che sia veramente sentita
come tale: certo non lo è,
purtroppo, l'OUA, che per
molti avvocati è rimasta solo
una sigla semisconosciuta. Vi
è invero l'Unione delle Camere
Penali, cioè l'associazione
che raccoglie un numero
ristretto di avvocati in prima
linea che ha il coraggio di
interloquire alla pari con i
governi non solo su temi «di
bottega», ma sulle grandi
questioni relative al diritto di
difesa: non a caso si tratta di
una realtà esterna all'OUA e
che, però, non ha il potere di
trattare per una intera categoria
che vede i penalisti in numero
limitato. Se l'avvocatura
avesse capito la lezione del
congresso di Milano ed avesse
avuto il coraggio di rinnovarsi
da sola prima che lo facessero
le forze ad essa ostili,
Bersani non avrebbe avuto la
possibilità di togliergli quel
paracadute dato dai residui
pezzi di un ordinamento professionale
nel tempo svuotato
degli ingranaggi fondamentali.
Ad oggi, realisticamente,
la battaglia può essere vinta
solo su quei punti del decreto
liberticidi, quali il divieto di
accettare contanti o l'inasprimento
fiscale, sui quali la
protesta della categoria non
sembra invero essersi concentrata.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma