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Editoriali: Concorrenza sleale 1933
Posted by Reboa on Tuesday, October 24 @ 00:00:00 CEST
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Lo scorso mese titolavo il mio articolo su queste pagina «riflessioni amare» e mi dilungavo su come la classe forense si fosse arroccata a difesa di un fortino di norme approvate quando la società era diversa, senza accorgersi non solo dei mutamenti sociali, ma del fatto che, in seguito agli attacchi esterni, quel fortino aveva perso le pietre fondamentali e, pertanto, non costituiva più una difesa reale della professionalità e dei conseguenti privilegi che ne dovrebbero derivare.
Grave errore per l'avvocatura è stato il non accorgersi che, attraverso la proletarizzazione dell'accesso alla professione il sistema si è liberato di una classe dirigente intellettualmente qualificata e tradizionalmente troppo libera per poter essere effettivamente controllata dal potere politico.
Peraltro tale errore lo hanno fatto anche quelle formazioni politiche le quali ritengono che debba porsi un argine al potere della Magistratura, ritenuto eccessivo con riferi-mento ai compiti ad essa affidati dalla Costituzione. E', infatti, indubbio che i Giudici abbiano in più di una occasione assunto un ruolo politico che non è stato solo quello di verifica del rispetto delle leggi da parte dei cittadini, ma di supplenza all'attività del Parlamento.
Il fatto che la corporazione dei Giudici sia in grado di condizionare i governi tanto da costringere quello attuale a rischiare una crisi politica per tentare di ottenere dal Parlamento il rinvio di una legge approvata dalle Camere in seconda lettura dimostra che quello della Magistratura è molto di più di un potere esecutivo indipendente della volontà del legislatore.
Nel campo della giustizia non vi è più un potere contrapposto di pari forza economico / politica e di prestigio intellettuale, né potrebbe essere diversamente allorché si parla di un'avvocatura composta da centinaia di migliaia di professionisti i quali si contendono a colpi bassi le briciole di un mercato le cui fasce industriali di quest'ultimo hanno reagito alla proletarizzazione affidando gli incarichi più remunerativi a strutture giuridiche internazionali.
I tempi sono cambiati e le battaglie politiche del XXI secolo si fanno non più in prima battuta in nome del prestigio e della qualificazione professionali, i quali al più sono elementi di uno dei concetti chiave dominanti, la cosiddetta competitività.
Altro concetto dominante in dipendenza della cultura europea che domina la nostra economia è il rispetto delle regole della concorrenza, con la conseguente sanzione di ogni forma di abuso di posizione dominante.
L'interprete della legge non può prescindere dai concetti inspiratori della stessa anche nelle sue lotte politiche e sociali. Tale concetto non è apparso chiaro a chi ha organizzato la protesta contro il decreto Bersani, che agli occhi della gente si è trasformata più in una querelle tra i legali che si occupano di infortunistica stradale e le compagnie di assicurazioni, piuttosto che in quella che il Presidente delle Camere Penali, avv. Ettore Randazzo, in una nota polemica che è stata presa quale spunto per il dibattito che si legge nelle pagine interne di questo numero di InGIUSTIZIA, ha giustamente definito «una aggressione legislativa da parte di chi vorrebbe un avvocato squalificato, sregolato, neutralizzato e persino controllato».
Il legislatore ha sancito che un avvocato con lo studio dotato di lettori per carte di credito sia più competitivo di uno intellettualmente preparato, ma che preferisce i contanti quale forma di pagamento delle sue parcelle: non può continuare a limitarsi a affermare l'assurdità di tali concetti, ma si debbono cercare nuove e più moderne strade per difendersi, ad esempio eliminando delle forme di concorrenza sleale che trovano origine dalla legge professionale del 1933.
Mi riferisco all'art. 30 della legge professionale (R.d.l. 1578/1933), norma in palese violazione dell'art. 33, 5° co.. della Costituzione che stabilisce che, per accedere ad una professione, bisogna sostenere un esame di stato. In base all'art. 30 hanno diritto di essere iscritti nell'albo degli avvocati coloro che siano stati Magistrati ordinari, amministrativi e militari, gli avvocati dello Stato e del cessato ufficio legale delle Ferrovie dello Stato, gli aggiunti di procura della stessa Avvocatura, gli ex- Prefetti, i professori di ruolo di discipline giuridiche delle università e degli istituti superiori ed i libero docenti, i Vice-pretori onorari.
Questa miriade di persone si differenzia tra di loro per il fatto che mutano gli anni di esercizio della pregressa attività, ma ha un minimo comune denominatore: essi si formano una clientela e dell'esperienza giuridica a spese dello Stato, nel quale magari rimangono quali lavoratori part time, e poi entrano nel mercato delle libere professioni, violando la regola costituzionale sull'accesso.
La concorrenza sleale è palese, ove si pensi all'impatto mediatico che hanno avuto certe inchieste per il Paese ed il successivo abbandono della toga del PM che ne era stato il simbolo, con suo passaggio all'avvocatura. Qualcuno potrà affermare che la competitività del suo neocostituito studio sia stata la medesima di quella di un giovane che lo ha aperto dopo aver fatto il suo iter costituzionale, cioè superato a fatica un periodo di pratica non pagato e l'esame di abilitazione?
Ancora: si può negare che un ex Giudice entra più facilmente nelle stanze degli ex colleghi di un neo avvocato?
E' lecito o no affermare che una legge fascista incostituzionale favorisce la concorrenza sleale nei confronti dei neo colleghi difensori da parte di ex Magistrati ed alti funzionari dello Stato che decidono di diventare avvocati?
I Consigli dell'Ordine potevano rifiutare le iscrizioni, eccependo l'incostituzionalità della norma e provocando così, nel successivo giudizio, la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale: non lo hanno fatto.
Le associazioni potevano attivarsi: non lo hanno fatto. Ogni commento è superfluo.

Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma

 
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