Lo scorso mese titolavo
il mio articolo
su queste pagina
«riflessioni amare» e mi
dilungavo su come la
classe forense si fosse arroccata
a difesa di un fortino
di norme approvate
quando la società era diversa,
senza accorgersi
non solo dei mutamenti
sociali, ma del fatto che,
in seguito agli attacchi
esterni, quel fortino aveva
perso le pietre fondamentali
e, pertanto, non costituiva
più una difesa reale
della professionalità e dei
conseguenti privilegi che
ne dovrebbero derivare.
Grave errore per l'avvocatura
è stato il non accorgersi
che, attraverso la
proletarizzazione dell'accesso
alla professione il
sistema si è liberato di
una classe dirigente intellettualmente
qualificata e
tradizionalmente troppo
libera per poter essere effettivamente
controllata
dal potere politico.
Peraltro tale errore lo
hanno fatto anche quelle
formazioni politiche le
quali ritengono che debba
porsi un argine al potere
della Magistratura, ritenuto
eccessivo con riferi-mento ai compiti ad essa affidati
dalla Costituzione. E',
infatti, indubbio che i Giudici
abbiano in più di una occasione
assunto un ruolo politico
che non è stato solo
quello di verifica del rispetto
delle leggi da parte dei cittadini,
ma di supplenza all'attività
del Parlamento.
Il fatto che la corporazione
dei Giudici sia in grado di
condizionare i governi tanto
da costringere quello attuale
a rischiare una crisi politica
per tentare di ottenere dal
Parlamento il rinvio di una
legge approvata dalle Camere
in seconda lettura dimostra
che quello della Magistratura
è molto di più di un
potere esecutivo indipendente
della volontà del legislatore.
Nel campo della giustizia
non vi è più un potere contrapposto
di pari forza economico / politica e di prestigio
intellettuale, né potrebbe
essere diversamente allorché
si parla di un'avvocatura
composta da centinaia di migliaia
di professionisti i quali
si contendono a colpi bassi
le briciole di un mercato
le cui fasce industriali di
quest'ultimo hanno reagito
alla proletarizzazione affidando
gli incarichi più remunerativi
a strutture giuridiche
internazionali.
I tempi sono cambiati e le
battaglie politiche del XXI
secolo si fanno non più in
prima battuta in nome del
prestigio e della qualificazione
professionali, i quali
al più sono elementi di uno
dei concetti chiave dominanti,
la cosiddetta
competitività.
Altro concetto dominante in
dipendenza della cultura europea
che domina la nostra
economia è il rispetto delle
regole della concorrenza,
con la conseguente sanzione
di ogni forma di abuso di
posizione dominante.
L'interprete della legge non
può prescindere dai concetti
inspiratori della stessa anche
nelle sue lotte politiche
e sociali. Tale concetto non
è apparso chiaro a chi ha organizzato
la protesta contro
il decreto Bersani, che agli
occhi della gente si è trasformata
più in una querelle
tra i legali che si occupano
di infortunistica stradale e le
compagnie di assicurazioni,
piuttosto che in quella che il
Presidente delle Camere Penali,
avv. Ettore Randazzo,
in una nota polemica che è
stata presa quale spunto per
il dibattito che si legge nelle
pagine interne di questo numero
di InGIUSTIZIA, ha
giustamente definito «una
aggressione legislativa da
parte di chi vorrebbe un avvocato
squalificato, sregolato,
neutralizzato e persino
controllato».
Il legislatore ha sancito che
un avvocato con lo studio
dotato di lettori per carte di
credito sia più competitivo
di uno intellettualmente preparato,
ma che preferisce i
contanti quale forma di pagamento
delle sue parcelle:
non può continuare a limitarsi
a affermare l'assurdità
di tali concetti, ma si debbono
cercare nuove e più moderne
strade per difendersi,
ad esempio eliminando delle
forme di concorrenza
sleale che trovano origine
dalla legge professionale del
1933.
Mi riferisco all'art. 30 della
legge professionale (R.d.l.
1578/1933), norma in palese
violazione dell'art. 33, 5°
co.. della Costituzione che
stabilisce che, per accedere
ad una professione, bisogna
sostenere un esame di stato.
In base all'art. 30 hanno diritto
di essere iscritti nell'albo
degli avvocati coloro che
siano stati Magistrati ordinari,
amministrativi e militari,
gli avvocati dello Stato
e del cessato ufficio legale
delle Ferrovie dello Stato,
gli aggiunti di procura della
stessa Avvocatura, gli ex-
Prefetti, i professori di ruolo
di discipline giuridiche delle
università e degli istituti superiori
ed i libero docenti, i Vice-pretori onorari.
Questa miriade di persone si
differenzia tra di loro per il
fatto che mutano gli anni di
esercizio della pregressa attività,
ma ha un minimo comune
denominatore: essi si
formano una clientela e dell'esperienza
giuridica a spese
dello Stato, nel quale magari
rimangono quali lavoratori
part time, e poi entrano
nel mercato delle libere
professioni, violando la regola
costituzionale sull'accesso.
La concorrenza sleale è palese,
ove si pensi all'impatto
mediatico che hanno avuto
certe inchieste per il Paese ed
il successivo abbandono della
toga del PM che ne era
stato il simbolo, con suo passaggio
all'avvocatura. Qualcuno
potrà affermare che la
competitività del suo neocostituito
studio sia stata la medesima
di quella di un giovane
che lo ha aperto dopo aver
fatto il suo iter costituzionale,
cioè superato a fatica un
periodo di pratica non pagato
e l'esame di abilitazione?
Ancora: si può negare che un
ex Giudice entra più facilmente
nelle stanze degli ex
colleghi di un neo avvocato?
E' lecito o no affermare che
una legge fascista incostituzionale
favorisce la concorrenza
sleale nei confronti dei
neo colleghi difensori da parte
di ex Magistrati ed alti
funzionari dello Stato che decidono
di diventare avvocati?
I Consigli dell'Ordine potevano
rifiutare le iscrizioni,
eccependo l'incostituzionalità
della norma e provocando
così, nel successivo giudizio,
la rimessione degli atti alla
Corte Costituzionale: non lo
hanno fatto.
Le associazioni potevano attivarsi:
non lo hanno fatto.
Ogni commento è superfluo.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma