Le scissioni di partito: egocentrismo o coerenza?
Che bisogno avevano
Fabio Mussi e
Francesco Storace
di lasciare i partiti dei quali
erano militanti storici
per costituire uno la Sinistra
Democratica e l’altro
La Destra?
Il primo è Ministro, si
muove in un’area già ampiamente
popolata di movimenti
che si richiamano
alla tradizione comunista,
con ampie possibilità di
aggregazione con questi
ultimi. Rifondazione Comunista,
Comunisti Italiani,
i Verdi sono tutti partiti
rappresentati in Parlamento
e, quindi, la scelta di
Mussi di non seguire i DS
nella loro avventura nel
Partito Democratico non è
in realtà un salto nel vuoto
come quello di Storace,
ma non è per ciò un passaggio
facile. Vi sono uomini
per i quali la sede del
partito è stata il punto di
riferimento della vita molto
più della loro casa: per
essi lasciare quel simbolo,
separarsi da quei compagni
di viaggio è come dividersi
dalla propria vita.
Credo che il paragone con
la separazione coniugale
non sia calzante, considerato
che per alcuni uominiil partito è molto di più della
propria famiglia, in quanto,
nella realtà quotidiana, è
quest’ultima che si adegua
alle esigenze della politica,
sino a diventare militante
anch’essa o ad accettare di
ritagliarsi uno spazio che si
rimpiccolisce o allarga in
maniera inversamente proporzionale
al successo del
familiare attivista.
A differenza di Mussi, Storace
è stato molto coraggioso,
in quanto ha messo
in gioco non solo i propri
affetti e la propria vita
passata, ma anche la possibilità
di essere rieletto in
Parlamento: le scissioni o
le separazioni a destra di
Alleanza Nazionale hanno
sinora prodotto una galassia
di movimenti con nulla
o insignificante rappresentanza
parlamentare ed analogo
peso politico.
In più la gestione del partito
da parte di Fini ha trasformato
Alleanza Nazionale in
un monolite nel quale la luce
irradia solo il capo e gli
altri, se non vogliono rimanere
al buio, devono combattere
perché egli gli conceda
di stare lì ove vi può
essere qualche riflesso.
In tale situazione può affermarsi
che la scissione a destra
sinora ha avuto rilievo
mediatico più per il fatto che
Fini ha ricevuto uno schiaffo
che per le idee che Storace
vuole affermare.
E qui vi è una convergenza
tra Mussi e Storace: si
parla di loro più perché disturbano
il manovratore
che per le loro idee, senza
rendersi conto che le protagoniste
sono le loro idee.
Tanto nella scelta diessina di
costituire il Partito Democratico
che nella svolta centrista
ed antifascista di Fini
vi è un desiderio di essere
integrati nello schema che
domina il mondo, ove gli affari
sono prevalenti ed i partiti
sono uno strumento per
condizionare il potere economico
senza assumere responsabilità
imprenditoriali.
Nella visione lobbista tipica
della politica americana i
partiti sono il cuscinetto tra
il potere reale (quello delle
banche, delle multinazionali,
delle grandi imprese editoriali,
ecc.) e la gente comune,
in tale sistema definita
come consumatori, cioè
clienti dei grandi fornitori di
beni e servizi. Nei partiti le
persone sfogano le loro pulsioni
all’interno di un sistema
sostanzialmente equilibrato,
dove votando repubblicano
o democratico si
manifestano degli indirizzi,
non si affermano delle idee.
Anche in Inghilterra vi è
una forte tradizione bipolare,
ma il sistema uninominale
secco consente al territorio
di far eleggere in Parlamento
le persone che ben
operano in quell’area: è
quindi l’uomo, con la sua
personalità ed il suo seguito
popolare, che si aggrega in
raggruppamenti più o meno
omogenei e non il partito
che condiziona il pensiero
dell’uomo.
Prima del Risorgimento, in
un’Italia nella quale si avvicendavano
le dominazioni
straniere, vigeva il detto popolare:
«o Francia o Spagna,
purché se magna». La
spasmodica corsa al centro
dei partiti altro non appare
che la riproposizione in
chiave moderna di quel detto,
con la precisazione che
gli eserciti sono sostituiti
dai capitali delle aziende e
banche multinazionali.
Vi è l’Europa, è vero, ma
è un’Europa senz’anima,
una semplice aggregazione
territoriale che si
preoccupa di far circolare
merci liberamente purché
siano il più possibile
conformi ad un modello
comune, priva di un esercito
comune e di ogni riferimento
a radici comuni.
In questo sistema chi ha
delle idee guida, dei principi
morali ai quali fare riferimento,
viene giudicato come
un idealista, con utilizzo
del termine in senso deteriore,
cioè come se si trattasse
di una persona perbene,
ma avulsa dalla realtà.
Forse è vero, un idealista è
estraneo alla realtà dominante,
ma non per questo è
un perdente o un cretino,
ma solo una persona che ha
valori diversi dall’utile immediato
o dal massimo profitto
economico: vi è gente
che all’immagine di Paperone
che nuota tra le monete
d’oro del suo deposito preferisce
quella di suo figlio
che gioca con altri bambini
su una spiaggia popolare,
divertendosi nella costruzio-
ne di castelli di sabbia.
Fini sarà sicuramente felice
se l’aver rinnegato il passato,
tagliando con esso anche l’ultimo
ponte costituito da una
moglie che non ha voluto essere
ciò che non è, lo porterà
alla presidenza del consiglio,
così come, probabilmente,
sarà infelice se fallirà nel suo
scopo.
Storace, come Mussi, sono
felici oggi, per essere stati se
stessi, ed aver consentito a
tante persone di continuare a
pensare che non andare al
centro non è un delitto, ma
solo evitare luoghi troppo
affollati dove si potrebbe stare
male anche solo a causa
della calca.
L’Italia calcistica campione
del mondo insegna che sono
le ali a portare una squadra
alla vittoria, ma stiamo parlando
di politica e, quindi, il
paragone è con il Risorgimento,
dove pochi furono, all’inizio,
a volere un’Italia
unita: alla fine ne bastarono
Mille, con tanto coraggio ed
un grande ideale.
Pensare il 2007 come l’anno
del Risorgimento ideale
e non del fallimento degli
idealisti è pensare positivo:
e si pensa positivo grazie
agli idealisti, non agli opportunisti.
Di Romolo Reboa