Autorevolezza e non autoritarismo: i ragazzi hanno bisogno di "segnali".
In un due recente incontri
di studio, patrocinati
dai Comuni di
Napoli e di Gela ho sviluppato
il questo “tema”,
conscio che la materia
trattata, da sola, sarebbe
stata sufficiente per sostenere
un Convegno nazionale,
data la vastità del fenomeno
affrontato.
Il titolo richiama, infatti, i
due capisaldi “sociologici”
che da sempre hanno
costituito i veri e propri
“confini” entro i quali è
cresciuta, a volte con successo,
a volte meno, la
“consapevolezza civile”
del “fanciullo” ad essere
prima l’adolescente e poi
l’uomo, e la donna, del
domani.
Allo stesso modo è evidente
che le modifiche
della società occidentale
in genere, e della nostra in
via specifica, sono la causa
prima di un totale mutamento
degli equilibri di
quelli che sono fattori interni,
sia della “famiglia”
che della “scuola”.
Questa affermazione non
è fatta per evitare analisi
più profonde, ma è, e rimane
un dato di partenza,
un dato certo.
Il problema,
nella realtà,
è “come intervenire”,
poste le oggettive
evoluzioni
che hanno interessato i “caposaldi”,
per continuare
a far sì che quanto
oggi possano offrire, comunque,
la famiglia e la
scuola consenta al “fanciullo”
di diventare “un
elemento positivamente
attivo nella società” un
domani.
Credo che come dato di
partenza si possa condividere
che, il compito primo
della famiglia e della
scuola, sia quello “filosofico”
di dare al “minore”
gli strumenti per operare
delle scelte, per potersi
impegnare nella “propria”
attività, per potersi (lui)
realizzare.
Senza, viceversa, restare
vittima né dei sogni e delle
proiezioni genitoriali,
né dei messaggi contraddittori,
che possono pervenirgli
dal primo confronto
con lo Stato, così come si
può definire il suo “percorso”
nel mondo della
scuola.
Storicamente il compito
della famiglia è stato quello
più denso di significati,
sia per le implicazioni di
tempo, (posto che l’attività
scolastica si svolge
per un arco di tempo ridotto
rispetto al “tempo di
casa”) sia per le implicazioni
connesse alla emulazione
affettivo-familiare,
che si sviluppano inconsciamente
in ogni ragazzo/a. Ma come è noto a
tutti, per l’evidenza sociologica
che ha il fenomeno,
la famiglia è oggi una entità
che spesso si sfalda
nella sua costituzione “casalinga”,
mercè le separazioni
dei coniugi, e non è
in grado di recuperare il
ruolo genitoriale dopo la
seprazione, tant’è che il
fenomeno della ablazione
della figura di un genitore,
è un portato della separazione
contro il quale, ancora,
non si riesce ad intervenire
con efficacia.
Ecco che a questo quadro
familiare, dovrebbe contrapporsi,
almeno, una rinnovata
capacità, da parte
della scuola, a riempire
quei vuoti o quelle mancanze
che hanno origine
nella famiglia.
Ma questo, a prescindere
dalle oggettive difficoltà
della scuola, è un compito
a cui la scuola, come tale
isolata da altre forme di
sostegno, non può attendere
perché esula dal suo
“effettivo” potere.
E’ evidente pertanto la necessità
di intervenire con
la “formazione” sia, per
quanto possibile, sulla cellula
familiare, sia sul
mondo della scuola, integrando
ed interagendo,
sempre di più, il flusso
delle informazioni necessarie
a confrontarsi con il
mondo dei minori, che sono
lì che aspettano “SEGNALI”
pronti a seguirli
NEL BENE E NEL MALE.
Com’è noto, le dinamiche
oppositive tra i genitori,
frutto di un non risolto
conflitto “personalissimo”
(accettabilità della immagine
di sé) sono la causa
prima della perdita per i
minori di quei riferimenti
“interni” che sono le figure
di mamma e di papà.
Per altro verso la “fragilità”
personale dei genitori
comporta la difficoltà
estremamente diffusa di
poter comunicare “un disagio”
vissuto dal figlio.
La prima reazione è quella
di chiudersi a riccio, e di
negare “comunque” della
esistenza stessa del problema.
Ecco dunque che il
mondo della scuola trova
il suo primo ostacolo.
Come dire, come farsi
sentire e farsi comprendere
nel “comunicare” l’evidenza.
V’è da notare che quando
il disagio viene manifestato,
pensare di segnalarlo o
di stigmatizzarlo, per poi
osservare una “modifica”
dei comportamenti patogeni,
è semplicemente
“ingenuo”.
Quando i comportamenti,
che hanno fonte in un disagio
familiare, si sono
manifestati, vuol dire che
la causa di questi è presente
nella relazione genitoriale,
per modificare la
quale si dovrà attendere o
il “miracolo” di un percorso
di Mediazione Familiare,
o la diversa soluzione
dell’abbandono di uno dei
due contendenti dal campo
del conflitto, per essersi
coinvolto in “altra storia
relazionale”, con effetti sì
deflativi della tensione sul
minore, ma con i diversi
corollari dell’abbandono e
della perdita, per il piccolo,
di una delle due sue figure,
insostituibili, di riferimento.
Elemento principe dell’intervento
della scuola potrebbe
dunque essere
quello di “organizzare”
partendo, proprio dai soggetti
che subiscono tali
“mancanze”, dai ragazzi
percorsi di “autostima”,
che mettano al centro la
figura di chi, e non per
sua colpa, si sente e subisce
l’essere marginalizzato,
proprio da mamma e
da papà.
La Scuola nella sua essenza
viene (deve essere) letta
dal “fanciullo” come
entità forte, terza estranea
alle dinamiche della famiglia,
e può restare fonte di
“regole comportamentali”.
Proprio di quelle delle
quali si sente più il bisogno,
e che il “conflitto intrafamiliare”
ha reso inesistenti.
Certamente, il livello di
comunicazione delle regole
al “fanciullo” non può
essere quello impositivo
(paterno per usare una figura
storica dell’essere famiglia)
ma deve percorrere
altre strade.
Autorevolezza e non autoritarismo,
esempio e non
imposizione, disponibilità
all’ascolto e non paritetica
condivisione di problemi.
Questa è la via per sviluppare
la quale è certamente
necessario raccogliere
i suggerimenti di
chi, sul campo ogni giorno,
si trova ad affrontare
quell’autentica emergenza
che è il dissolversi sempre
di più dell’interazione tra
la Famiglia e la Scuola.
Solo così si potrà operare
anche sul confine tra
scuola e famiglia nel “Superiore
interesse del Minore”
tanto caro al nostro
legislatore.
Di Giorgio Vaccaro