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Cultura: L' ''aria salata''
Posted by InGiustizia on Thursday, November 29 @ 16:07:05 CET
Articolo Download periodico “Rebibbia: “Una vera e propria comunità - racconta il regista Alessandro Angelini - dove accadono cose straordinarie ma ci sono esseri umani, con relativi odi e dissapori”.



“L’aria salata” (2006) è il suggestivo titolo (avanti spiegheremo il suo significato) del film di esordio del giovane e promettente Alessandro Angelini, cineasta romano 36enne cresciuto alla palestra del “Sacher Festival” di Nanni Moretti, dopo essersi fatto le ossa con diversi documentari.
Volevamo intervistare qualcuno che avesse fatto volontariato dentro un carcere, e abbiamo scelto lui perchè ha lavorato per un anno con il gruppo “V.I.C. Volontari in Carcere” fondato da Don Sandro Spriano, cappellano presso il carcere romano di Rebibbia, e perché, sulla base di quella stessa esperienza ha scritto (assieme ad Angelo Carbone) e diretto la sua opera prima cinematografica.
La trama de “L’aria salata” è incentrata su Fabio (interpretato da Giorgio Pasotti), giovane educatore carcerario animato da grande passione per il suo lavoro, il quale incontra un detenuto condannato per omicidio, tale Sparti, uomo difficile, indurito da una lunga detenzione continuata.
Ben presto Fabio capisce che si tratta proprio del padre che non vede da tanti anni, e di colpo si trova costretto a fare i conti con un passato doloroso, di cui la sorella Cristina non vuole neanche sentire parlare…
Non raccontiamo di più sulla trama per chi non avesse visto il film, ma piuttosto chiediamo al regista come gli è venuta l’idea del soggetto.
Alessandro ci conferma che è stato ispirato dalla sua esperienza di volontario in carcere, vero e proprio «contenitore di storie», ci spiega, e dove si incontrano persone diverse con storie diverse, dopo aver scartato l’idea di realizzare un documentario ambientato a Rebibbia.
“L’attività di volontariato” - continua Alessandro Angelini – “ha lo scopo precipuo di occuparsi dei detenuti e di creare un «ponte» fra loro e tutto quello che c’è fuori dal carcere; i volontari interagiscono con gli educatori e gli assistenti sociali, segnalando, ad esempio, quei detenuti che hanno problemi nel mettersi in contatto con il loro avvocato o che non ricevono più visite dai familiari”.
Ma tutti gli educatori che Alessandro ha incontrato (anche per preparare il film, oltre ad ex-detenuti, guardie carcerarie e assistenti sociali) sono davvero come Fabio, il protagonista del suo film, che fa il suo mestiere «dettato non dalla necessità economica ma da un’esigenza interiore» come lo stesso regista ha dichiarato? «Certamente ci siamo ispirati ad educatori simili a Fabio, una persona che lavora infaticabilmente, che ha a cuore il suo lavoro, che sa che fa un lavoro poco remunerativo ma molto importante» risponde il regista, il quale aggiunge che comunque non ha voluto dare un immagine idealizzata e “perfetta” di questa categoria di operatori nel carcere; non a caso nel film sono rappresentati altri colleghi di Fabio che svolgono il loro ruolo in maniera più “burocratica” e meno sentita.
E chiediamo ancora ad Alessandro se per tratteggiare il personaggio di Sparti (il padre di Fabio nel film, interpretato dal bravissimo Giorgio Colangeli) si sia ispirato a qualche ex-detenuto che ha conosciuto nella fase preparatoria.
Ci risponde che insieme al co-sceneggiatore Carbone non volevano tratteggiare il personaggio come un «carattere cinematografico », ma come «una persona », e questo li ha fatto sentire liberi di costruirlo come meglio credevano, con il contribuito dello stesso attore che avrebbe dovuto interpretarlo (a Colangeli si deve l’idea di trasmettere allo spettatore la sensazione di un uomo imprigionato da tanti anni la cui vita è fatta di «echi» di quello che succedeva fuori nel mondo).
Il risultato è stato una interpretazione davvero convincente che ha valso allo stesso Colangeli il prestigioso David di Donatello (il mini-Oscar italiano, tanto per intenderci).
Il film è ambientato in un vero carcere, seppur dismesso (quello di Veneri, in provincia di Pistoia) che il regista ha tentato di far assomigliare il più possibile a quello di Rebibbia, dove non è stato possibile girare (nonostante il permesso favorevole del Direttore Cantoni, da noi intervistato qualche numero fa). Chiediamo ad Alessandro, che ha dichiarato in proposito che forse la sceneggiatura non è stata ritenuta idonea per l’immagine che voleva dare di sé il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, se forse una scena in cui Sparti viene malmenato ad opera di due agenti di polizia penitenziaria non sia stata gradita a Via Arenula (il D.A.P. dipende dal Ministero della Giustizia).
«Semplicemente ci hanno detto che il film non corrispondeva all’esigenza dell’immagine che il Ministero di voleva dare del suo operato» replica il regista, che evidentemente non ha voglia di polemizzare.
E il film a Rebibbia come è stato accolto dagli agenti di polizia penitenziaria?
«Quando hanno visto il film mi hanno fatto i complimenti… il gesto più “pacificatore” che ci possa essere…» risponde Alessandro, spiegando che ritiene che in carcere ci siano tante persone costrette a convivere fra di loro, non solo i detenuti ma anche agenti di custodia, assistenti sociali, educatori ecc., anzi «quando si parla di sovraffollamento delle carceri bisogna pensare anche a loro, che vanno lì a lavorare e che la situazione diventa difficile anche per tutti.. ed è molto semplice, quando ci sono delle situazioni difficili, che si creino delle antipatie personali».
Nel film, infatti si rappresenta il rapporto difficile fra Sparti e Lodi (interpretato da Sergio Solli, sottovalutato attore caratterista napoletano) guardia carceraria di lungo corso che diffida del padre di Fabio (e lo fa anche picchiare dai suoi uomini, come si diceva sopra).
Angelini ci conferma della grande umanità che ha lasciato a Rebibbia, raccontandoci l’aneddoto di un agente di polizia penitenziaria che è costretto ad interrompere il colloquio, ormai terminato, di un detenuto con il figlio minore ma si appella così all’internato:
«Direttore, mi scusi, ma senza di Lei non sappiamo come fare…»; una vera e propria comunità, racconta Alessandro, dove accadono cose straordinarie ma ci sono esseri umani, con relativi odi e dissapori.
Chiediamo ad Alessandro di un altro personaggio del suo film, ovvero della fidanzata di Fabio (Emma) che sembra rappresentare una borghesia comprensiva e solidale ma incapace di capire il mondo del carcere. Che cosa si sente di dire, allora, a tutti coloro che il carcere lo vedono, di sfuggita, qualche volta in televisione, magari a “Porta a Porta”?
«Che dovrebbero andarci almeno un giorno, anche un solo giorno per vedere che cos’è un carcere e cosa succede lì…» risponde pronto, aggiungendo che il carcere rappresenta, in fondo, tutta la nostra società, dato che ci sono le stesse tipologie di persone, «bisogna avvicinare la società ai detenuti e non solo i detenuti alla società», aggiunge, spiegandoci il suo personale concetto di «giustizia conciliativa » che vuole essere il vero motivo sociale del film.
“Giustizia conciliativa”, ovvero obbligare una persona che ha commesso un crimine non tanto a stare in galera, ma a restituire qualcosa alla stessa società da lui derubata di qualcosa… principio per cui bisognerebbe, secondo Alessandro, allargare l’ambito applicativo delle pene alternative, eccezion fatta per i reati più gravi puniti con pene più severe.
Per chiudere l’intervista, e non deludere i nostri attenti lettori, gli chiediamo il significato del titolo.
«L’aria è riferito all’ora d’aria» ci spiega «ed è salata perché il film inizia e finisce al mare, il mare che corrompe i lucchetti, i cancelli e le serrature…salata perché dà l’idea di un respiro non sano, che non si può respirare a pieni polmoni, dunque aria salata perchè malsana…».

Di Rodolfo Capozzi

 
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