Nuovi profili sulla rilevanza penale della lettura da parte del dirigente.
Con una sintetica
ma chiarissima
pronuncia di poche
settimane fa (la n.
47096/07), la Quinta Sezione
del Supremo Collegio
ha stabilito che il dirigente
aziendale che - essendo
legittimamente in
possesso della password -
accede al computer di un
dipendente al solo fine di
prendere cognizione del
contenuto della corrispondenza
telematica
aziendale non commette
il reato di violazione di
corrispondenza (art. 616
c.p.).
La Corte, nel giungere a
queste conclusioni, ha
preso avvio dall’esegesi
dell’art. 616 c.p., osservando,
in merito alla differente
tutela accordata
alla corrispondenza
“aperta” rispetto a quella
“chiusa”, che: “la condotta
di chi si limita a prendere
cognizione [come
nel caso di specie] è punibile
solo se riguarda
corrispondenza chiusa.
Chi invece prende cognizione
di corrispondenza
aperta è punito solo se
l'abbia a tale scopo sottratta
al destinatario ovvero
distratta dalla sua
destinazione”.
Particolare rilievo assume
pertanto stabilire se la
corrispondenza telematica
aziendale possa avere natura
di corrispondenza
“aperta” o se, al contrario,
rappresenti una forma
di corrispondenza “chiusa”,
in presenza della
quale – come visto - potrà
dirsi integrato il
reato di cui all’art.
616 c.p. con la
semplice “presa
cognizione” della
stessa da parte del
soggetto agente.
Sul punto la Corte
di Cassazione ha
però chiaramente
sancito
che tale
“diffusa”
forma di
corrispondenza debba
considerarsi chiusa “solo
nei confronti dei soggetti
che non siano legittimati
all'accesso ai sistemi
informatici di invio o di
ricezione dei singoli messaggi.
Infatti, diversamente
da quanto avviene
per la corrispondenza
cartacea, di regola accessibile
solo al destinatario,
è appunto la legittimazione
all'uso del sistema
informatico o telematico
che abilita alla conoscenza
delle informazioni
in esso custodite”.
Pertanto, essendo il
soggetto legittimato
all’utilizzo del servizio
telematico di corrispondenza
anche legittimato
alla
conoscenza
– o quantomeno
alla
conoscibilità
- del suo contenuto,
nei confronti di esso detta
corrispondenza dovrà ritenersi
“aperta” e non
“chiusa”.
In altri termini, ai fini della
punibilità del soggetto
che, essendo legittimato
ad accedere alla corrispondenza
telematica,
prenda cognizione di essa,
sarà necessario, vista la
natura “aperta” di tale tipologia
di corrispondenza,
che la presa di cognizione
del suo contenuto rappresenti
lo scopo
di una precedente
sottrazione
o distrazione di
detta corrispondenza
dalla
sua originaria
destinazione.
La sentenza
in esame
appare di notevole pregio anche nel
punto in cui sottolinea
che la legittimazione all’utilizzo
del servizio di
corrispondenza telematica,
titolo a sua volta abilitante
alla conoscenza
delle informazioni in esso
contenute, dipenderebbe
non solo dalla proprietà
del mezzo – come invece
dedotto dal Giudice di
primo grado – ma principalmente
dalle norme
regolatrici dell’uso
degli impianti.
Nessun rilievo
avrebbe quindi la
destinazione del
mezzo telematico
non solo al lavoro
ma anche alla comunicazione
come
invece sostenuto da
una lettura costituzionalmente
orientata
(art. 15 cost.) fatta
propria dal ricorrente.
In particolare osserva il
Giudice di legittimità che,
qualora il sistema telematico
sia protetto da una
password (come nel caso
di specie) debba ritenersi
che la corrispondenza in
esso custodita sia lecitamente
conoscibile da parte
di tutti coloro che legittimamente
dispongano
della chiave informatica
di accesso, a condizione
comunque che il dipendente
- utilizzatore abituale
del servizio di corrispondenza
telematica in
oggetto – sia stato informato
della possibilità e
delle modalità di accesso
al proprio computer da
parte del dirigente. Ne
consegue che il dirigente
che, previa adeguata
informativa al dipendente,
utilizzi la password -
legittimamente detenuta –
al solo fine di prendere
cognizione della corrispondenza
telematica
aziendale del dipendente,
non commette il reato di
violazione di corrispondenza
(art. 616 c.p.).
Sulla base di tali argomenti
- peraltro pienamente
condivisibili - il
Supremo Collegio ha
quindi rigettato il ricorso
presentato dal P.M. del
Tribunale di Torino contro
una sentenza che aveva
prosciolto un dirigente
aziendale dall’accusa di
avere abusivamente preso
cognizione della corrispondenza
informatica
aziendale di una dipendente,
licenziata poi sulla
base delle informazioni
così acquisite.
Di Francesco Salamone