La riforma della giustizia
Il tema della riforma
della giustizia torna
prepotentemente alla ribalta
in seguito agli arresti
operati da varie Procure
della Repubblica del centro
sud nei confronti di imprenditori
e personalità politiche
del Partito Democratico,
con coinvolgimento
anche di autorevoli
esponenti del PDL.
Il tutto mentre il partito del
sen. Di Pietro ottiene un
innegabile successo nelle
regionali abruzzesi, nelle
quali si registra anche il record
negativo dei votanti,
evento che dimostra la sfiducia
nei politici dopo lo
scioglimento nella medesima
regione a causa dell’arresto
di Ottaviano Del Turco.
A Roma la Corte di Appello
civile rinvia tutte le
cause, anche le più semplici
e quelle in puro diritto
nelle quali ha emesso una
ordinanza in sede di delibazione
della domanda di
sospensiva che è di fatto
una sentenza da ricopiare,
ad oltre cinque anni e nessuno
può garantire che
quel giorno la causa verrà
introitata in decisione.
Si registrano ormai fenomeni
di cause finalizzate
non solo ad ottenere il risarcimento
dei danni per i ritardi
nella emissione delle
sentenze, ma anche per ottenere
analogo risarcimento per
il ritardo nell’esame della domanda
di condanna dello Stato
per denegata giustizia:
qualcuno potrebbe dire che è
il classico caso del cane che
si morde la coda.
La Suprema Corte di Cassazione
ogni giorno emette pronunce
in camera di consiglio
che rendono sempre più probabili
le declaratorie di inammissibilità
dei ricorsi di legittimità,
in un proposito di deflagrazione
del contenzioso
che da un lato è naturale e
corretto, atteso lo scarso livello
tecnico con il quale
purtroppo molti avvocati redigono
gli atti rivolti a tale
Corte, ma che rischia di trasformarsi
in una ingiustizia
manifesta per vari motivi.
Il primo è che, quando la
Magistratura si rifiuta di pronunciarsi
per problemi inerenti
alla forma del ricorso introduttivo
che non ledono il diritto
di difesa dell’altra parte, nasce
il sospetto popolare che il rigido
formalismo nasconda la
volontà di denegare giustizia.
Il secondo è che la necessità
di redigere ricorsi non sempre
tecnicamente perfetti potrebbe
trovare origine non già
dell’incapacità dell’avvocato
(con conseguente possibilità
per il cittadino di restringere
le proprie scelte a professionisti
di provata affidabilità),
ma dal fatto che esistono
sentenze da appellare talmente
cervellotiche e avulse dalla
realtà processuale che gli
unici termini per censurarle
dovrebbero essere «il giudice
a quo non ha letto gli atti»: il
rigido formalismo si traduce
quindi nella impossibilità di
porre rimedio ad una giustizia
negata da una corte territoriale,
con conseguente venir
meno del sistema giudiziario
dalla sua funzione che
non è redigere sentenze, ma
dare giustizia. E’ ormai palese
a tutti che la tutela dei diritti
è inefficace se la si deve
attuare entrando in un’aula
di Tribunale in quanto si tratta
di una struttura fatiscente.
E’ una struttura fatiscente
che, però, ha molto potere ed
altrettanto ne amministra,
nella quale vi sono quindi
persone che la utilizzano per
prestigio personale, per raggiungere
i vertici dello stato
(basta pensare a quanti sono
i magistrati in Parlamento) o
per commettere reati.
Questo però riguarda pochi:
la maggior parte delle risorse
umane che operano all’interno
del «pianeta giustizia»
(avvocati, magistrati, personale
di cancelleria e ufficiali
giudiziari) sono persone demotivate
che auspicano solo
di riuscire senza danni a
«portare a casa la pagnotta»,
magari tentando di salvare il
salvabile quando qualcuno
ne stimola l’orgoglio, come
si fa con i nobili decaduti.
Il Presidente del Consiglio è
uscito sostanzialmente indenne
da centinaia di vicende
giudiziarie, fatto che, se
lo fa guardare con sospetto
da alcuni ed additare come
vittima di un complotto di
giudici deviati da altri, non
lo rende sicuramente super
partes agli occhi degli Italiani
con riferimento a qualsiasi
riforma che di questo pianeta
vorrà mettere nel cantiere.
Eppure qualcosa deve cambiare,
se si vuole restituire fiducia
nello stato di diritto: il
punto di riferimento è la Costituzione
repubblicana, della
quale si blatera tanto per poco
applicarne i principi.
Potrebbe incominciare il Capo
dello Stato, esercitando
stabilmente quel potere di
presidenza del Consiglio Superiore
della Magistratura che
gli assegnano gli artt. 87 e
104 della Costituzione e che
la prassi ha relegato al Vicepresidente
designato dal Parlamento,
rendendo così agli
occhi della gente i giudici una
delle caste dello stato e non
l’emanazione di chi rappresenta
l’unità della nazione.
Si potrebbe applicare l’art.
106 della Costituzione che
prevede la possibilità di nomina
elettiva dei magistrati
onorari ed attribuire a questi
ultimi tutte le funzioni attribuite
a giudici singoli, tra i
quali attualmente rientra anche
il PM.
A proposito dell’ufficio del
PM ci si dovrebbe ricordare
che l’art. 112 della Costituzione
stabilisce l’obbligatorietà
della azione penale, ma
nessuna norma costituzionale
stabilisce che tale ufficio
debba essere ricoperto da
giudici.
Anzi, per l’esattezza,
una interpretazione letterale
dell’art. 111 della Costituzione, che
parla di parità tra accusa e difesa
e di processo da eseguirsi
davanti ad un giudice terzo ed
imparziale, lascia propendere
ad un divieto per il magistrato
di essere in contemporanea
giudice ed accusatore.
Se tutti i giudici togati venissero
assegnati esclusivamente
ai collegi dal primo grado in
su e tutte le funzioni dei giudici
singoli, ivi compreso
l’ufficio del Pubblico Ministero)
venissero affidate a magistrati
onorari eletti tra gli avvocati
cassazionisti (con loro
temporanea cancellazione dall’albo
professionale) si risolverebbero
in un sol colpo problemi
di organici e si ridarebbe
alla magistratura quel prestigio
di uomini super partes a
tutela dei cittadini voluto dalla
Costituzione.
L’avvocatura ritroverebbe il
suo prestigio con la competizione
tra accusa e difesa e con
il periodico giudizio popolare
su coloro che, nel suo seno,
dovrebbero essere chiamati a
ricoprire il ruolo di giudice e
di pubblico ministero.
Sembra l’uovo di Colombo,
basterebbe incrinare il guscio
dei privilegi…
Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma