La responsabilità penale del professionista
In tema di responsabilità disciplinare dell’Avvocato, di grande interesse appare il tema della configurabilità
della responsabilità disciplinare del professionista
in presenza di un decreto penale di condanna non opposto.
In altri termini, il quesito da porsi concerne l’individuazione degli eventuali profili di responsabilità disciplinare a carico dell’Avvocato
condannato mediante lo strumento del decreto penale di condanna. Per rispondere a tale interrogativo è opportuno (come sempre) partire
dalla normativa di riferimento, costituita nel caso di
specie dall’art. 653 c.p.p. e dall’art. 5 del “Codice deontologico Forense”. In particolare, in relazione all’art. 653 c.p.p., che prevede l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna nel
giudizio per responsabilità disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, è
bene chiarire che, secondo la dottrina (Ventura), fra i benefici tipici del decreto penale di condanna si annovererebbe la sua inefficacia nei giudizi disciplinari. Ed invero, tale argomento deriverebbe
da una condivisibile interpretazione a contrario della normativa prevista in materia di patteggiamento. Difatti, se in tema di sentenza di
patteggiamento è da ritenersi plausibile l’efficacia nel giudizio disciplinare di tale sentenza in forza dell’esplicito richiamo all’art. 653 c.p.p. operato dall’art. 445 c.p.p., al contrario in tema di decreto
penale di condanna non rinvenendosi alcuna clausola di tale tipo è lecito propendere per la tesi dell’inefficacia in sede disciplinare del decreto
penale. In altre parole, in assenza di un rinvio legislativo “diretto” sul modello di quello operato dall’art. 445 c.p.p., la condanna irrogata con il decreto penale di condanna non dovrebbe avere
efficacia nei giudizi disciplinari aventi ad oggetto lo
stesso fatto cui si riferisce detto provvedimento giurisdizionale.
Tale conclusione non priva comunque del tutto
l’Ordine professionale del potere di aprire un autonomo procedimento disciplinare che abbia come elemento di riferimento non tanto la condanna irrogata mediante il decreto penale di condanna (inefficace in sede disciplinare per le ragioni sopra esposte) quanto i fatti non
colposi in relazione ai quali è stato emesso il predetto decreto.
E ciò in forza del dettato del citato art. 5 Cod.
deontologico, che impone l’apertura di un procedimento disciplinare in presenza (si
badi!!) della semplice imputazione a carico dell’Avvocato di un comportamento non colposo penalmente rilevante. Tuttavia lo stesso articolo,
quasi a voler controbilanciare quanto perentoriamente affermato in apertura,
prosegue affermando che è “fatta salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso”,
accordando quindi in tal modo un’ampia discrezionalità in favore dell’Ordine “per quanto riguarda la valutazione della rilevanza
disciplinare dei fatti” (Cass. civ., Sez. Un., 12.02.08). Del pari, l’inserimento sempre al
secondo comma del citato art. 5 della disposizione secondo la quale “l’avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche
non riguardanti l’attività forense, quando si riflettano sulla sua reputazione professionale
o compromettano l’immagine della classe forense”
sembrerebbe limitare in misura ancora maggiore il
potere disciplinare riconosciuto in capo all’Ordine
professionale. In sintesi, alla luce delle considerazioni sinora svolte, è agevole affermare
che, se, da un lato, la condanna irrogata con decreto penale di condanna non legittimerebbe l’adozione de plano di una sanzione disciplinare,
dall’altro lato, è altrettanto vero che in capo all’Organo professionale rimane pur sempre il potere, in astratto, di effettuare un proprio
ed autonomo accertamento sul fatto di reato.
Ciò posto, degno di nota, sembra anche l’ulteriore aspetto inerente al rapporto fra la condanna irrogata con decreto penale ed il requisito della “condotta specchiatissima ed illibata” la cui sussistenza è richiesta, non solo all’atto dell’iscrizione all’Albo, ma anche ai fini della permanenza in esso. Al riguardo si osserva comunque che, come affermato anche dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. Un., n. 6331/1990), la verifica di tale requisito comporta un'indagine che non può basarsi sulla semplice constatazione dell'esistenza di una condanna penale ma deve viceversa fondarsi su una valutazione puntuale degli atti di indagine, volta a verificare se i fatti accertati in sede penale siano tali da escludere o meno il requisito richiesto.
Francesco Salamone
Cultore di Diritto dell'Economia presso l'Università degli studi di Moidena e Reggio Emilia