Modello anglosassone o latino?
Questo l’interrogativo che, sul futuro dell’avvocatura
italiana, Maurizio De Tilla propone ai
lettori nel suo intervento su
Guida al Diritto del 30 maggio.
Il modello inglese, secondo
De Tilla, esprime una
concezione mercantile
della professione
forense e assimila
l’avvocato a un operatore
economico di
stampo lontanissimo
dal modello latino.
Secondo il Presidente
dell’Organismo
Unitario dell’Avvocatura
le priorità della
riforma sono il ripristino
dei minimi
di tariffa, la riserva
di consulenza legale,
le specializzazioni,
la formazione e l’accesso, la
disciplina, la partecipazione e
l’unità di rappresentanza della
categoria. Di diverso avviso
è Gaetano Romano Presidente
dell’Unione Giovani
Avvocati Italiani su Guida al
Diritto del 6 giugno; secondo
Romano il disegno di legge
27 febbraio 2009 sull’ordinamento
forense messo a punto
dal CNF e all’esame della
Commissione Giustizia del
Senato costituisce in realtà
una controriforma dopo le timide
aperture all’attualità
che portano il nome - amato e
odiato - di Bersani. In realtà,
incalza Romano, si tratta di
una proposta di riforma che
non riforma un bel niente ma
è intesa unicamente a consolidare
e difendere le posizioni
dell’avvocatura già affermata,
quella dei cassazionisti,
che trova nel CNF la sua diretta
espressione. Aquesti interventi,
contrapposti per
contenuti e linee guida, ha
fatto seguito sullo stesso magazine
Guido Alpa con un intervento
prudente e circospetto
come è nel suo costume.
Il Presidente del CNF,
dopo essersi compiaciuto,
con timide riserve, della recente
miniriforma del processo
civile che porta il nome di
Alfano e dopo avere difeso
l’avvocatura da ogni addebito
quanto ai tempi della giustizia,
auspica che trovi finalmente
luogo la riforma della
professione forense con le
necessarie regole sull’accesso,
sulla qualificazione professionale,
sui servizi
ecc. ecc.. Il panorama
delle opinioni sulla
riforma in fieri dell’ordinamento
forense è,
si sa, vasto e frastagliato.
Spiccano in esso
due concezioni tra
loro molto diverse dell’avvocatura
che gli
interventi di De Tilla e
di Romano disegnano
con chiarezza. (1). Nel
testo licenziato dal
CNF prevale, all’evidenza,
l’intento di
contenere l’accesso agli albi
attraverso meccanismi fortemente
selettivi e nel contempo
quello di difendere gli
spazi della professione forense
attraverso il tentativo di ottenere
la riserva di consulenza
legale e la difesa del sistema
tariffario con la inderogabilità
dei minimi.
Questo, secondo De Tilla, è il
modello continentale-latino.
Sono certo in verità che,
quanto al modello latino, De
Tilla non si riferisce a quello
romano che era tanto lontano
dagli obiettivi della odierna
riforma da vietare al patrono
di percepire dal cliente un
compenso per l’opera prestata.
Sono certo del pari che la
Presidenza O.U.A. di De Tilla
non potrà che giovare all’avvocatura
per essere egli
prezioso gestore degli incarichi
che di volta in volta l’avvocatura
gli affida. E tuttavia e tuttavia…. nonostante la
considerevole distanza anagrafica
che mi separa da Romano,
sono più vicino alle
sue critiche al progetto di
riforma che non agli apprezzamenti
di De Tilla.
E dirò, per necessaria sintesi
in ragione dello spazio assegnato
a questo intervento,
qual è la mia opinione.
La sintesi farà riferimento ai
punti fondanti della riforma o
controriforma che dir si voglia
e cioè al sistema di reclutamento,
al sistema tariffario,
alla collocazione dell’avvocatura
nello scacchiere della
società contemporanea.
Incominciando da quest’ultima
osservo che il testo della
riforma ancora una volta pone
l’accento sulla “dignità” e
sul “ prestigio” della professione
per poi sottolineare in
punto di compensi che questi
devono consentire all’avvocato “un guadagno adeguato
alla sua funzione sociale e al
decoro della professione”
(art.12.1). Dunque, ancora
una volta l’affermazione o
meglio la pretesa che la professione
forense debba occupare
una posizione privilegiata
rispetto alla altre professioni
ed attività che connotano
la società civile; pretesa
questa, come ognun vede,
retaggio di una antica
concezione ottocentesca o
addirittura romantica, lontanissime
dal moderno assetto
della società nella quale tutte,
nessuna esclusa, le attività,
le professioni, i
ruoli riconosciuti dall’ordinamento
hanno e devono avere uguale dignità
e prestigio se svolti
con competenza, dignità
e coscienza: dall’idraulico
al ministro. Da ciò la conseguenza
che non v’è ragione
alcuna di differenziare
i compensi in ragione di
una pretesa maggiore o minore
dignità della professione
posto che nella società
contemporanea costo e remunerazione
di qualsivoglia attività
sono effetto della qualità
della prestazione in confronto
con la domanda e con
l’offerta. A questa realtà, che
può piacere o dispiacere, è
vano opporre tentativi lobbistici
per di più da parte di una
categoria, quale l’avvocatura,
che a differenza di altre (magistrati,
notai, farmacisti) è
incapace di una politica unitaria.
Tant’è che di fatto la regola,
anzi l’aspirazione alla
congruità del compenso, è
largamente contrastata dal
mercato: vedansi le convenzioni
al ribasso con gli avvocati
di enti, banche, assicurazioni,
largamente inferiori alle
prescrizioni della tariffa
forense. Insomma il tentativo
di mandare in soffitta Bersani
ripristinando l’obbligatorietà
delle tariffe forensi, in difetto
di convenzione tra le parti,
mi pare destinato all’insuccesso
perché fuori dall’attualità.
Così pure il progettato ripristino
del divieto del patto
di quota lite che pure giovava
al cliente meno abbiente affrancandolo
dall’onere delle
spese e garantendogli un più
prudente pronostico sulla lite
da parte del difensore.
Da questa pregiudiziale collocazione
aristocratica
dell’avvocatura nel contesto
sociale discende un sistema
di reclutamento duramente
ma velleitariamente selettivo:
tirocinio di ventiquattro mesi
preceduto da un test informatico
di ingresso, esame di stato
preceduto da una prova di
preselezione informatica: sistema
selettivo questo che è
già fallito in altri settori quanto
all’uso di tests di preselezione
(da ultimo vedasi la
soppressione della prova di
preselezione informatica per
l’accesso al notariato di cui
all’art. 66 L. 18.06.09 n.69),
sistema per di più inutilmente
complesso che denuncia il
tentativo velleitario di porre
rimedio alla inflazione degli
albi senza percorrere la strada,
da tempo abbandonata,
del severo controllo, anche al
bisogno disciplinare, sulla effettività
del tirocinio né quella,
seppure illiberale, felicemente
percorsa dai Notai, del
numero chiuso, strade entrambe
mal viste finora: la
prima per la ovvia conseguenza
che la severa verifica del tirocinio
comporterebbe l’adozione
di misure disciplinari nei confronti di entrambi i trasgressori il praticante e il dominus -avvocato ma anche elettore, la seconda quella del numero chiuso contraria (a prescindere dai dinieghi comunitari) all’interesse e alle speranze
di troppi professionisti
umanamente desiderosi di ottenere
per i propri figli, congiunti,
collaboratori, percorsi
di accesso più agili. Si vede
in conclusione come la
riforma dell’ordinamento si
scontri con presupposti e
condizioni che ne impediscono,
nel nostro paese, una evoluzione
adeguata ai tempi e
alle necessità della società
contemporanea e a ben vedere
di una avvocatura moderna.
Una riforma, in conclusione,
che tenta timidamente,
lungo itinerari anacronistici,
la difesa della professione in
Italia attraverso la contingentazione
del numero: difesa
inutile perché intanto, forti
delle direttive liberalizzatici
dell’Unione Europea, dai nostri
organismi vanamente e timidamente
contrastate, rischiano
di arrivare da altri
paesi della comunità - ad
esempio dalla Spagna - battaglioni
di neolaureati liberi
da qualunque ingombro selettivo,
con la fattiva collaborazione
di strutture specializzate
nel conseguimento agevole
di titoli di studio e professionali
come appare dall’allegato
inserto pubblicitario
che spero Ingiustizia
vorrà pubblicare omettendo
gli estremi della organizzazione
di riferimento. Anche a
questo incombente e grave
pericolo - che pur dovrebbe
essere duramente contrastato
dagli organismi dell’avvocatura
che sembrano privilegiare
criteri di accesso fortemente
selettivi - il CNF oppone
un atteggiamento esitante e
prudentissimo come appare
dal parere fornito a un Ordine
territoriale relativamente alla
iscrizione all’albo di professionista
proveniente da altro
paese, connotato addirittura
dal timore di esporre l’Ordine
a una azione di danni.
In conclusione, mi pare, stiamo
percorrendo una strada
sbagliata e fuori dal tempo; e
tuttavia, e tuttavia…. se vogliamo
proprio percorrerla
facciamolo con grinta, piuttosto
che con la inutile e timida
ricerca del compromesso.
E’ vano se no auspicare la
unità dell’avvocatura; l’unità
nasce in politica dalle battaglie
non dalla resa.
Giorgio Della Valle
Avvocato del Foro di Roma