Quale riforma dopo i casi Cucchi e Blefari Melazzi?
La morte di Stefano
Cucchi e di Diana
Blefari Melazzi riportano
alla ribalta il problema
carceri, uno dei temi
più scottanti della politica
e che forse proprio per
questo troppo spesso si
sceglie di ignorare. Il problema,
anche se spesso
ignorato, non è di poco
conto; celebre in questo
senso le parole di Voltaire:
«Non fatemi vedere i vostri
palazzi ma le vostre
carceri poiché è da essi che
si misura il grado di civiltà
di una nazione».
A certificare il mancato rispetto
dei diritti umani è la
condanna da parte della
Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo (CEDU) delle
carceri italiane, ritenute da
terzo mondo, ma per le
quali i diversi governi succedutisi
negli anni non
hanno saputo dare una risposta
concreta, vuoi per
mancanza di soldi vuoi per
scarsa volontà. Nella
drammaticità dei casi, le
vicende di questi giorni
hanno avuto se non altro il
merito di aver portato a conoscenza
dell’opinione
pubblica il grave ed evidente
stato di illegalità e
violazione dei diritti umani
che avviene ogni giorno
nelle carceri.
La speranza è che si giunga,
dopo tanti anni, ad una
riforma seria e condivisa
da tutta la politica perché
quello della detenzione è
un problema che interessa
il paese, visto che presto o
tardi la maggioranza dei
carcerati dovrà esser reinserito
nella società. Vogliamo
allora dare voce all’avvocatura,
considerata tanto
un “potere forte” quanto
ascoltato e che pure sul
punto è sempre stata ferma,
intervistando l’avvocato
Gian Domenico
Caiazza, presidente dell’Unione
Camere Penali di
Roma, che si è occupato
personalmente delle vicende
di Cucchi e della Blefari
Melazzi.
Stefano Cucchi era già
visibilmente tumefatto,
come racconta il padre,
alla convalida del suo arresto.
Come può un carcerato
far valere i suoi diritti
contro violenze di
questo genere?
E’ enormemente difficile.
Questo è il Paese nel quale
la versione del Pubblico
Ufficiale è la Verità; se poi
gli si contrappone quella di
un soggetto sociale difficile,
un detenuto o un tossicodipendente,
i margini di
speranza sono ridotti al lumicino.
Il difensore ha, in
questo caso, un compito
difficilissimo: chiedere ed
ottenere giustizia per il
proprio assistito, tenendolo
al riparo da ritorsioni
più gravi del danno già subito.
«La droga ha svolto un
ruolo determinante, perché
è stata la causa della
fragilità di Stefano, anoressico,
tossicodipendente
e soggetto a crisi di epilessia
» ha dichiarato il
sottosegretario Giovanardi.
Secondo lei, persone
che si trovano in situazioni
di così grande difficoltà
sono idonee al regime
di detenzione, o sono
le carceri italiane che non
sono adatte a detenere
persone in tale stato?
Innanzitutto, chi fa dichiarazioni
del genere è manifestamente
inidoneo a
svolgere i propri compiti,
come nel caso di Giovanardi.
Detto questo, il carcere è
un non senso per soggetti,
come il tossicodipendente,
che devono solo essere curati.
Il proibizionismo imperante,
tra i suoi molti
mali, determina appunto la
equivalenza tra tossicodipendente
e criminale.
Chiudiamo nelle carceri i
problemi che non sappiamo
risolvere politicamente
e socialmente.
Nel caso Blefari Melazzi
si sono ignorate non solo
delle perizie mediche ma
anche delle intercettazioni
ambientali che davano
la ex brigatista a rischio
suicidio. Qual è il confine
tra la necessità di assicurare
la detenzione e quella
di garantire i detenuti
infermi dai loro stessi gesti
estremi?
Bisogna riconoscere che
non si tratta di un confine
chiaro e marcato, e che
dunque il problema non è
facilmente gestibile. Ma
non si può accettare l’idea
che una problematica psichiatrica
allarmante meriti
o meno considerazione a
seconda della gravità del
reato per cui si è detenuti.
Ho l’impressione che è
questo quello che è accaduto
nel caso della Blefari.
Il problema delle carceri
è cronico e porta ogni anno
suicidi tanto tra i detenuti
quanto agli agenti.
Ritiene che la situazione
si possa risolvere con misure
alternative alla carcerazione,
magari per i
reati minori, o sarebbe
sufficiente costruire nuove
carceri? Nell’attesa di
una soluzione, auspica
un’amnistia o un indulto
per uscire dallo stato attuale
d’illegalità ed evitare
ulteriori condanne
della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo?
L’indulto e l’amnistia per
svuotare le carceri ed alleviare
il carico dei procedimenti
penali pendenti è
certamente una sconfitta
per lo Stato, che si conferma
incapace a gestire il fenomeno
criminale ed il
collasso del processo penale.
Ma rifiutarsi di prendere
atto del fallimento,
sulla pelle di decine di migliaia
di persone (la metà
delle quali in attesa di giudizio)
che hanno comunque
diritto a non vedere
calpestata la propria dignità
umana, è una mostruosità,
un segno di debolezza,
non di forza.
Indulto ed amnistia sono,
ancora una volta, l’unica
strada decentemente praticabile.
Circa la metà dei detenuti
è in regime di carcerazione
preventiva. Il problema
è legato in particolar
modo alla lunghezza
dei processi italiani, che
di fatto rendono i carceri
pieni di persone non condannate
e che forse mai
lo saranno a causa della
prescrizione.
Del resto la stessa lunghezza
dei processi e il lasciare
a piede libero l’indagato
danno da un lato
l’immagine di un paese
che non punisce i suoi
criminali e dall’altro stimolano
la politica alla
demagogia. Potrebbero
queste vicende essere lo
stimolo per una significativa
svolta nella politica
giudiziaria e carceraria
del paese?
Come potrei non augurarmelo?
Da anni le Camere
penali italiane indicano nelle
riforme strutturali della
Giustizia (separazione delle
carriere, riforma del CSM,
riforma della obbligatorietà
dell’azione penale), l’unica
strada per dare al Paese una
Giustizia degna di un paese
moderno e civile.
Ma il dato politico è inequivocabile:
da sinistra,
una avversione totale a
quelle riforme, in nome di
una totale subordinazione
politica alla Associazione
Nazionale Magistrati.
A destra, 15 anni di preannunci,
nessuna riforma, e
agenda politica dettata dalle
vicende processuali del
Presidente del Consiglio. Il
pessimismo è d’obbligo,
direi.
“Lo Stato forte è quello
che difende anzitutto i
più deboli e i più indifesi”
ha dichiarato l’avv.
Borzone, vicepresidente
dell’UCPI. Queste vicende
hanno fatto scoprire
all’opinione pubblica
che anche dietro ad
un terrorista ci può essere
una persona debole.
La società potrebbe cominciare
a vedere con
occhi diversi i detenuti?
Anche qui, vorrei poterlo
sperare.
Ma viviamo anni difficili,
nei quali i deboli, i dannati
della terra, sono piuttosto
prede braccate, mentre
vengono rappresentati ossessivamente
come barbari
alle porte.
Non mi sembrano tempi
inclini alla comprensione
delle fragilità e delle debolezze:
anche qui, non
spero altro che di sbagliarmi.
Massimo Reboa