La democrazia con la libertà di pensiero
Pensare, tra le tante cose proprie dell’uomo,
è la cosa che lo caratterizza di più e quindi
anche la più difficile. Pensare non vuol dire riportare il pensiero dell’unico altro che conosciamo o dell’opinione egemone in un dato
momento: quello è un altro modo, più o meno consapevole, di salire sul carro del vincitore.
Pensare invece credo che significhi elaborare pensieri propri, che poi non per questo non
possono essere parzialmente o totalmente uguali
a quelli di altri. Insegnare a pensare è la grande sfida di una società democratica che vuole continuare a essere tale.
La funzione della scuola, nella formazione del cittadino, è in questo senso essenziale:
educare ad una coscienza critica. È infatti
caratteristica delle società evolute la libertà di esprimersi nei modi più diversi e, eventualmente, pagare le conseguenze degli errori a questo modo compiuti.
In questo senso possiamo dire che per una volta l’Italia ha fatto un passo avanti: un nuovo assetto delle reti televisive o anche solo della carta stampata? No, solo la possibilità, per un
professore in dibattito aperto con i propri studenti,
di esprimere la propria opinione non su un fatto
storico di primo piano ma sulla sua celebrazione, in
questo caso l’Olocausto. Il professor Renato Pallavidini infatti sostenne in classe, dopo la domanda di una sua studente sul perché non partecipasse al “Giorno della Memoria”, che l’Olocausto era ad oggi lo strumento culturale usato da Israele per giustificare le azioni contro i palestinesi.
Tesi ben diversa da quella negazionista dei
Lefebvriani, in quanto vengono espressi solo giudizi di valore sull’uso attuale di questo evento senza mettere in discussione il fatto storico.
Il dibattito in classe continua e il professore
afferma che “Hezbollah era un esercito partigiano di popolo e che il presidente iraniano non vuole la distruzione di Israele e che questa è tutta propaganda occidentale, la sua analisi dei rischi di dissoluzione dello stato di Israele è tutta diversa da quanto propongono i media”. La vicenda va a finire sui giornali, che ci ricamano sopra facendo
credere che fossimo davanti a un professore negazionista anziché a uno che pensa con la propria testa ed esprime le proprie opinioni.
Cosa che sarebbe quasi un dovere, viste le
circostanze che si era in un liceo classico e che proprio quella Costituzione tanto volte sbandierata, male interpretata e quindi tradita tutela sia la libertà d’espressione del pensiero (art. 21) sia quella d’insegnamento (art. 33).
Tre anni di processo sono passati per vedere il professore assolto e risarcito del danno subito, con una sentenza sicuramente innovativa, dopo un processo che lo vedeva imputato per aver fatto bene il suo lavoro di professore, ossia stimolare i ragazzi a sviluppare una coscienza critica di fronte alle infinite contraddizioni della società in cui viviamo. Sarebbe allora un lavoro quasi
impossibile insegnare il dibattito delle idee pienamente cosciente e quindi democratico senza la libertà (d’espressione) del proprio pensiero. L’unica compensazione?
Un libro curato da Claudio Moffa sul caso, “La polizia del pensiero”, che lo stesso autore ha presentato il 21 aprile alla libreria Medichini di Piazzale Clodio.
Massimo Reboa