Quella sotterranea mai sopita, sfiducia verso gli avvocati
Quando superai l’esame
di abilitazione
alla professione
forense gli amici di infanzia
mi regalarono un
pupazzo, raffigurante un
avvocato in toga, sul cui
soggolo compariva la
scritta: “Il primo atto di
una causa è l’acconto”. Il
motto, sarcasticamente ed
in modo simpatico, stava
a significare quel comportamento
dell’avvocato
che, senza tanti giri di parole,
enuncia al cliente
che se intende avvalersi
della propria opera deve
intanto versare un anticipo
in denaro. A ben vedere
si tratta di un contegno
che, insieme a molti altri,
l’uomo comune attribuisce
alla categoria forense
come se si trattasse di un
fatto disdicevole. Tuttavia
la lex Cincia è da secoli
che non esiste più. E, del
resto, nei riguardi degli
avvocati – come comunque
avviene per molte altre
categorie professionali
– esistono svariate barzellette
che servono a dipingere,
in modo ironico, taluni
luoghi comuni dello
svolgimento dell’incarico
difensivo. Nulla di anormale,
se si resta nel campo
della satira.
Ma se, dopo che finanche
alcune cariche istituzionali
si sono permesse di
alimentare un clima di
“dalli al togato” con interviste
e commenti di sgradevolissimo
sapore, ci si
mette anche il legislatore
patrio a far intendere che
gli avvocati sono una
massa di furfantelli, le cose
si mettono davvero
male.
E’ il caso del decreto legislativo
sulla mediazione
civile, n. 28 del 2010, che
all’art. 4 comma 3 disciplina
gli obblighi di informazione
che gravano sull’avvocato.
Il legale, infatti,
in forza di detta regola,
è tenuto ad informare
il proprio l’assistito dei
casi in cui l’esperimento
del procedimento di mediazione
è condizione di
procedibilità della dom
a n d a g i u d i z i a l e.
L’informazione, dice la
norma, deve essere fornita
chiaramente e per
iscritto ed il documento
che contiene l’informazione,
sottoscritto dall’assistito,
deve essere allegato
all’atto introduttivo
dell’eventuale giudizio.
Se dunque è richiesta la
forma scritta per sancire
l’assolvimento dell’obbligo
di informativa, la norma
poteva ben finire qui,
tenuto altresì conto che
l’ultima parte del comma
3 stabilisce che “il giudice
che verifica la mancata
allegazione del documento
informa la parte della
facoltà di chiedere la mediazione”.
Non bastava. Si voleva a
tutti costi dare un segnale
di vera e propria umiliazione.
Si è infatti aggiunto,
nella stessa disposizione,
che “in caso di violazione
degli obblighi di
informazione, il contratto
tra l’avvocato e l’assistito
è annullabile”. Si tratta, in
tutta evidenza, di una prova
di clamorosa ed innegabile
sfiducia che si nutre
verso il professionista
forense, rispetto al quale
il legislatore alimenta una
inammissibile diffidenza.
Si vuol presupporre, cioè,
che il difensore possa
aver sottaciuto al proprio
cliente la possibilità (oggi)
o doverosità (domani),
e si introduce un’azione
di annullamento del negozio
di assistenza che di
fatto espone il professionista
a rischi enormi, che
giungono sino al punto di
poterlo considerare, processualmente,
la vera parte
nel giudizio (se il mandato
è annullato egli potrebbe
essere accusato di
essere stato, in causa, di
persona).
Le associazioni forensi
hanno criticato molto alcuni
punti fondamentali
del decreto legislativo,
primo fra tutti quello che
non prevede l’obbligo di
difesa tecnica nel procedimento
di mediazione.
La pretesa che l’avvocato
debba essere presente, a
fianco della parte, nella
mediazione, può anche
dare vita ad una vera e
propria battaglia di classe
in senso rivendicativo, ma
i detrattori diranno che tale
richiesta nasconde pur
sempre quel desiderio di
remunerazione che stava
scritto sul soggolo del mio
pupazzo. Ciò che invece,
a mio parere, non può proprio
passare, è quel sentimento
di sfiducia, di perenne
sospetto, nei riguardi
del contegno dell’avvocato
che colloquia col
proprio assistito, che indebolisce
l’intera categoria
nell’immaginario collettivo.
Poco tempo fa ho
scoperto che su un sito di
un’Associazione di tutela
di consumatori c’era un
vademecum, intitolato
“come difendersi dagli
avvocati infedeli”, nel
quale la figura dell’avvocato
veniva dipinta – con
generalizzazione disarmante
– come quella di un
mascalzone truffatore, che
profitta dell’ingenuo assistito.
Una volta, esibire il tesserino
di appartenenza all’Ordine
degli Avvocati
costituiva motivo di fierezza
e di orgoglio: con il
tempo che passa sembra
che ci si debba vergognare
di indossare la toga.
Così ho deciso di sostituire
il soggolo del mio caro
pupazzo. E ci ho scritto:
“Il primo atto di una causa
è informare il cliente
che ci potrà fare causa”.
Rodolfo Murra
* Avvocato del Foro di Roma e Segretario Ordine Avvocati