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Interviste: Intervista a Loretta Ubaldi, criminologa e pedagogista
Posted by InGiustizia on Tuesday, January 11 @ 19:29:52 CET
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Minori, riflessioni sul diritto di visita del genitore

FRAGALE. Il 21 di settembre scorso i media hanno divulgato una notizia inquietante: un padre una volta appresa una modifica giudiziale della riduzione dei tempi di frequentazione da due giorni a settimana a uno con la propria figlia di tre anni ha ucciso la minore e si è tolto la vita. Premesso che accerterà la Procura se esiste o meno un nesso di casualità tra l’informazione ricevuta e il tragico gesto, ammesso che la Magistratura trovi un collegamento causale come può essere inquadrabile dal punto di vista criminologico questo gesto insano?
UBALDI. Il collegamento in astratto può esistere. Si tratta di un fenomeno rispetto al quale non ci sono dati statistici se non quelli prodotti da FENBI (Federazione Nazionale Bigenitorialità) che studia questo genere di azioni criminose da più di quindici anni. Dico che la relazione esiste perché si tratta di osservare l’effetto più tragico dell’inibizione del proprio progetto educativo e del legame genitoriale che gli è proprio.
L’esclusione ingiusta da tale progetto, il confinamento a ruoli marginali, la cronica inibizione di poter rispondere alla propria funzione, la delegittimazione, la mortificazione, accompagnate dalla totale inefficacia delle contromisure giuridiche innescano la spirale di disperazione che può esitare in episodi di cronaca nera.
I Tribunali continuano a concedere un “diritto di visita”: una ragionieristica attribuzione di tempi ed orari privi di spontaneità, che si concretizza in misure standard di alcune ore due pomeriggi a settimana, due weekend al mese, una settimana durante le vacanze natalizie e due d’estate.
Questo modus operandi/vivendi si traduce in una esclusione di fatto dalla vita dei figli.
Le interpretazioni di routine rischiano di essere fuorvianti, perché si parla sempre di disperazione correlata alla gelosia, alla mancata accettazione della fine del rapporto; spesso si ricorre ad interpretazioni che attingono ai disturbi mentali. Ciò che si omette di considerare invece è la causa principale: l’interruzione giuridica del legame genitoriale, la disperazione del genitore che si vede privato immotivatamente dei sui figli.
Questi casi ormai sono all’ordine del giorno e c’è da chiedersi se quel individuo in quello stesso giorno avrebbe commesso un gesto altrettanto criminoso in qualsiasi altra circostanza.
Oppure è proprio il fatto di vedersi negare il diritto fondamentale a poter vivere accanto ai propri figli ad aver azzerato la resistenza di quel genitore?
La FENBI ed in particolare Fabio Nestola ed io crediamo che ci sia una unica chiave di lettura nella criminogenesi di questi accadimenti: un genitore allontanato ingiustamente il più delle volte accusato gravemente, limitato nella possibilità di difendersi a volte a fronte di accuse infamanti perde la volontà di continuare a lottare per ristabilire un legame sano con i propri figli. L’abbiamo definita la “lunga scia di sangue” proprio per descrivere quanto diffuso, sottovalutato e mal compreso sia questo fenomeno, possiamo dire oggettivamente che gli autori di questi gesti sono quasi esclusivamente, percentualmente uomini, ma questo ovviamente perché nella nostra cultura a fronte di una separazione i figli seguono la madre. Neppure l’introduzione della legge sull’affidamento condiviso ha prodotto un cambiamento culturale, di fatto ad esito di una separazione uno dei genitori diventa periferico. Succede che questa dinamica di esclusione possa arrivare a rendere un genitore davvero escluso dalla vita dei propri figli.
Parlavo di accuse infamanti riferendomi al correlato fenomeno dell’ ”abuso dell’abuso” e del maltrattamento: si tratta delle false accuse che molto spesso vengono usate per ottenere il risultato di allontanare ed estraniare dal contesto familiare l’ex coniuge-compagno e quindi per eliminarlo dalla vita dei figli. Abbiamo fatto una ricerca per conoscere il parere di sostituti procuratori “donne” proprio perché non ci fosse pregiudizio di genere ed abbiamo rilevato parere concordi: una altissima percentuale delle denuncie di abuso o maltrattamento sono false e strumentali, ma il successo della denuncia arriva automaticamente.
Tutto questo è materiale che rientra nella ricerca che il collega Fabio Nestola ed io presenteremo a metà ottobre al Congresso Nazionale di Criminologia sull’omicidio in famiglia.
FRAGALE. Tiberio Timperi noto giornalista della Rai sulla falsa riga di questo fatto di cronaca ha reso in questo momento molte interviste in tv. Mi è a cuore un punto in particolare ha accusato la categoria degli avvocati di suggerire capziosamente ad alcune donne con figli minori di presentare una notizia di reato costruita per lesioni o percosse, possibilmente corroborata da certificati medici di strutture pubbliche pompati ad arte. Nella sua annosa esperienza professionale le è mai capitato, da criminologa e pedagogista, di aver rilevato casi analoghi quando di supporto alle Difese, o come CTU?
UBALDI. Io posso rispondere con l’autorevole voce del Sostituto Procuratore Carmen Pugliese, che all’ inaugurazione dell’anno giudiziario 2009, (previa autorizzazione del Proc.Gen Addano Galizi, 29/1/2009) bacchettava i centri antiviolenza che non sempre verificano l’attendibilità delle denuncie che raccolgono, ricordando inoltre che non seguono l’intero iter dei casi, ragione per cui non prendono atto della mole incredibile di archiviazioni.
Dice inoltre la Dott. Pugliese: «I maltrattamenti in famiglia stanno diventando un'arma di ritorsione per i contenziosi civili durante le separazioni...», «...molte volte le versioni fornite dalle presunte vittime sono gonfiate ad arte. Solo in due casi su 10 si tratta di maltrattamenti veri, il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione...». «...L'impressione è che alcune mogli tendano a usare pm e polizia come strumento per perseguire i propri interessi in fase di separazione...».
Per la mia esperienza posso dire di aver assistito negli ultimi due anni almeno quattro casi di genitori falsamente accusati, che hanno subito un allontanamento “preventivo” visibilmente strumentale. Il fatto che siano stati successivamente assolti non ha però sanato la situazione di alienazione genitoriale. In realtà si è configurato un evidente quanto ingiusto accanimento giudiziario.
Questo non coinvolge categorie in generale: avvocati, consulenti, giudici, assistenti sociali, le responsabilità vanno ricercate sia nell’impreparazione di taluni, sia nel sistema che, a fronte di una falsa denuncia, da la garanzia di ottenere come minimo il risultato-base l'interruzione immediata dei rapporti fra i figli ed il genitore accusato di violenze.
FRAGALE. Quanto può reputarsi opportuno il pur necessario inserimento della giustizia in dinamiche familiari così intime? E quanto invece sarebbe forse più pregnante l’inserimento sistemico di uno specialista del conflitto in dinamiche del genere?
UBALDI. Questa è l’eterna dicotomia del Diritto, dilaniato tra l’aspetto privatistico dell’ambito familiare e quello pubblicistico. L’assetto sociale è talmente mutato e l’organizzazione familiare così variegata che il diritto da una parte è chiamato in causa per derimere i conflitti familiari, dall’altra una volta attivato assume in prima persona responsabilità che non dovrebbero teoricamente appartenergli perché attengono al potere di autodeterminazione degli individui.
Rispetto alla gestione dei conflitti familiari ho sempre pensato che nella maggior parte dei casi non dovrebbero neppure entrare nel circuito giustizia ma essere gestiti attraverso la mediazione familiare, attraverso percorsi di training genitoriale e quanti altri strumenti il sapere psicopedagogico ci fornisce.
FRAGALE. Ma nei casi nei quali proprio si deve entrare nel circuito giustizia, il sistema così come è risulta fallace o risulta satisfattorio?
UBALDI. In realtà - paradossalmente - il sistema Giustizia si muove con una dinamica paragonabile a quella della “Sindrome di Stoccolma” infatti tende inconsapevolmente a colludere con il genitore che mette in atto comportamenti alienanti attribuendogli quale unico interesse la tutela del figlio.
La Sindrome di Stoccolma per Procura (che ci appartiene simbolicamente per metafora e conio) appare la condizione pregiudiziale e quindi pregiudizievole nella quale si trova il Sistema Giustizia, con tutti gli operatori coinvolti (Giudici, Consulenti, Periti, Assistenti Sociali, Avvocati), che manifestano un favor nei confronti del genitore che ambisce a fare dei figli proprietà esclusiva, arrivando ad attribuirgli fiducia incondizionata anche talvolta in assenza di motivazioni plausibili.
E’ come se il genitore prevalente goda di un legame fiduciario, aprioristicamente acquisito, a volte collusivo, in cui il Sistema Giustizia si trova imbrigliato a sostenere insensatamente la prevalenza medesima.
Il genitore prevalente (affidatario fino al 2006, collocatario dopo la riforma dell’affido condiviso) gode quasi sempre di un credito di posizione. Capita che usi questo credito per logorare, fino ad inibirlo, il legame tra i figli ed il genitore residuo.
Le conseguenze più gravi della Sindrome di Stoccolma per Procura possono esitare in episodi di cronaca nera come quello da cui siamo partiti.
La Giustizia Riparativa deve lanciare una sfida culturale per superare la logica sterile del vincitore/vinto, perché attualmente nell’ambito particolare del conflitto separativo questo può rappresentare un pericoloso fattore di rischio sociale.
Nei casi estremi tuttavia la Giustizia dovrebbe poter contare su un sistema di tutela multidisciplinare affinché il minore coinvolto nella lite sia tutelato e con lui la effettiva realizzazione delle sue relazioni primarie e della famiglia estesa.
FRAGALE. Dottoressa la tematica è talmente interessante che possiamo riservarci se lei me lo consente di fare un approfondimento di intervista per un altro numero di In Giustizia.
UBALDI. Per me va bene.

Francesca Romana Fragale
*AVV. PENALISTA, PRESIDENTE DELL'ASSOCIAZIONE "FUTURO SOSTENIBILE". MEMBRO DELLA CAMERA PENALE DI ROMA

 
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