Minori, riflessioni sul diritto di visita del genitore
FRAGALE. Il 21 di
settembre scorso i
media hanno divulgato
una notizia inquietante:
un padre una volta appresa
una modifica giudiziale della
riduzione dei tempi di
frequentazione da due giorni
a settimana a uno con la
propria figlia di tre anni ha
ucciso la minore e si è tolto
la vita. Premesso che accerterà
la Procura se esiste o
meno un nesso di casualità
tra l’informazione ricevuta
e il tragico gesto, ammesso
che la Magistratura trovi un
collegamento causale come
può essere inquadrabile dal
punto di vista criminologico
questo gesto insano?
UBALDI. Il collegamento
in astratto può esistere. Si
tratta di un fenomeno rispetto
al quale non ci sono
dati statistici se non quelli
prodotti da FENBI (Federazione
Nazionale Bigenitorialità)
che studia questo genere
di azioni criminose da
più di quindici anni. Dico
che la relazione esiste perché
si tratta di osservare
l’effetto più tragico dell’inibizione
del proprio progetto
educativo e del legame genitoriale
che gli è proprio.
L’esclusione ingiusta da tale
progetto, il confinamento
a ruoli marginali, la cronica
inibizione di poter rispondere
alla propria funzione,
la delegittimazione, la mortificazione,
accompagnate
dalla totale inefficacia delle
contromisure giuridiche innescano
la spirale di disperazione
che può esitare in
episodi di cronaca nera.
I Tribunali continuano a
concedere un “diritto di visita”:
una ragionieristica attribuzione
di tempi ed orari
privi di spontaneità, che si
concretizza in misure standard
di alcune ore due pomeriggi
a settimana, due
weekend al mese, una settimana
durante le vacanze natalizie
e due d’estate.
Questo modus operandi/vivendi
si traduce in una
esclusione di fatto dalla vita
dei figli.
Le interpretazioni di routine
rischiano di essere fuorvianti,
perché si parla sempre di
disperazione correlata alla
gelosia, alla mancata accettazione
della fine del rapporto;
spesso si ricorre ad
interpretazioni che attingono
ai disturbi mentali. Ciò
che si omette di considerare
invece è la causa principale:
l’interruzione giuridica del
legame genitoriale, la disperazione
del genitore che si
vede privato immotivatamente
dei sui figli.
Questi casi ormai sono all’ordine
del giorno e c’è da
chiedersi se quel individuo
in quello stesso giorno
avrebbe commesso un gesto
altrettanto criminoso in
qualsiasi altra circostanza.
Oppure è proprio il fatto di
vedersi negare il diritto fondamentale
a poter vivere accanto
ai propri figli ad aver
azzerato la resistenza di quel
genitore?
La FENBI ed in particolare
Fabio Nestola ed io crediamo
che ci sia una unica
chiave di lettura nella criminogenesi
di questi accadimenti:
un genitore allontanato
ingiustamente il più
delle volte accusato gravemente,
limitato nella possibilità
di difendersi a volte a
fronte di accuse infamanti
perde la volontà di continuare
a lottare per ristabilire
un legame sano con i propri
figli. L’abbiamo definita la
“lunga scia di sangue” proprio
per descrivere quanto
diffuso, sottovalutato e mal
compreso sia questo fenomeno,
possiamo dire oggettivamente
che gli autori di
questi gesti sono quasi
esclusivamente, percentualmente
uomini, ma questo
ovviamente perché nella
nostra cultura a fronte di
una separazione i figli seguono
la madre. Neppure
l’introduzione della legge
sull’affidamento condiviso
ha prodotto un cambiamento
culturale, di fatto ad esito
di una separazione uno dei
genitori diventa periferico.
Succede che questa dinamica
di esclusione possa arrivare
a rendere un genitore
davvero escluso dalla vita
dei propri figli.
Parlavo di accuse infamanti
riferendomi al correlato fenomeno
dell’ ”abuso dell’abuso”
e del maltrattamento:
si tratta delle false accuse
che molto spesso vengono
usate per ottenere il risultato
di allontanare ed estraniare
dal contesto familiare
l’ex coniuge-compagno e
quindi per eliminarlo dalla
vita dei figli. Abbiamo fatto
una ricerca per conoscere il
parere di sostituti procuratori
“donne” proprio perché
non ci fosse pregiudizio di
genere ed abbiamo rilevato
parere concordi: una altissima
percentuale delle denuncie
di abuso o maltrattamento
sono false e strumentali,
ma il successo della denuncia
arriva automaticamente.
Tutto questo è materiale
che rientra nella ricerca
che il collega Fabio Nestola
ed io presenteremo a
metà ottobre al Congresso
Nazionale di Criminologia
sull’omicidio in famiglia.
FRAGALE. Tiberio Timperi
noto giornalista della
Rai sulla falsa riga di questo
fatto di cronaca ha reso in
questo momento molte interviste
in tv. Mi è a cuore
un punto in particolare ha
accusato la categoria degli
avvocati di suggerire capziosamente
ad alcune donne
con figli minori di presentare
una notizia di reato costruita
per lesioni o percosse,
possibilmente corroborata
da certificati medici di
strutture pubbliche pompati
ad arte. Nella sua annosa
esperienza professionale le
è mai capitato, da criminologa
e pedagogista, di aver
rilevato casi analoghi quando
di supporto alle Difese, o
come CTU?
UBALDI. Io posso rispondere
con l’autorevole voce
del Sostituto Procuratore
Carmen Pugliese, che all’
inaugurazione dell’anno
giudiziario 2009, (previa
autorizzazione del
Proc.Gen Addano Galizi,
29/1/2009) bacchettava i
centri antiviolenza che non
sempre verificano l’attendibilità
delle denuncie che
raccolgono, ricordando
inoltre che non seguono
l’intero iter dei casi, ragione
per cui non prendono atto
della mole incredibile di archiviazioni.
Dice inoltre la Dott. Pugliese:
«I maltrattamenti in famiglia
stanno diventando
un'arma di ritorsione per i
contenziosi civili durante le
separazioni...», «...molte
volte le versioni fornite dalle
presunte vittime sono
gonfiate ad arte. Solo in
due casi su 10 si tratta di
maltrattamenti veri, il resto
sono querele enfatizzate e
usate come ricatto nei confronti
dei mariti durante la
separazione...». «...L'impressione
è che alcune mogli
tendano a usare pm e
polizia come strumento per
perseguire i propri interessi
in fase di separazione...».
Per la mia esperienza posso
dire di aver assistito negli
ultimi due anni almeno
quattro casi di genitori falsamente
accusati, che hanno
subito un allontanamento
“preventivo” visibilmente
strumentale. Il fatto che
siano stati successivamente
assolti non ha però sanato la
situazione di alienazione
genitoriale. In realtà si è
configurato un evidente
quanto ingiusto accanimento
giudiziario.
Questo non coinvolge categorie
in generale: avvocati,
consulenti, giudici, assistenti
sociali, le responsabilità
vanno ricercate sia nell’impreparazione
di taluni,
sia nel sistema che, a fronte
di una falsa denuncia, da la
garanzia di ottenere come
minimo il risultato-base
l'interruzione immediata dei
rapporti fra i figli ed il genitore
accusato di violenze.
FRAGALE. Quanto può
reputarsi opportuno il pur
necessario inserimento della
giustizia in dinamiche familiari
così intime? E quanto
invece sarebbe forse più
pregnante l’inserimento sistemico
di uno specialista
del conflitto in dinamiche
del genere?
UBALDI. Questa è l’eterna
dicotomia del Diritto, dilaniato
tra l’aspetto privatistico
dell’ambito familiare e
quello pubblicistico. L’assetto
sociale è talmente mutato
e l’organizzazione familiare
così variegata che il
diritto da una parte è chiamato
in causa per derimere
i conflitti familiari, dall’altra
una volta attivato assume
in prima persona responsabilità
che non dovrebbero
teoricamente appartenergli
perché attengono
al potere di autodeterminazione
degli individui.
Rispetto alla gestione dei
conflitti familiari ho sempre
pensato che nella maggior
parte dei casi non dovrebbero
neppure entrare nel circuito
giustizia ma essere gestiti
attraverso la mediazione
familiare, attraverso percorsi
di training genitoriale
e quanti altri strumenti il sapere
psicopedagogico ci
fornisce.
FRAGALE. Ma nei casi
nei quali proprio si deve entrare
nel circuito giustizia, il
sistema così come è risulta
fallace o risulta satisfattorio?
UBALDI. In realtà - paradossalmente
- il sistema
Giustizia si muove con una
dinamica paragonabile a
quella della “Sindrome di
Stoccolma” infatti tende inconsapevolmente
a colludere
con il genitore che mette
in atto comportamenti alienanti
attribuendogli quale
unico interesse la tutela del
figlio.
La Sindrome di Stoccolma
per Procura (che ci appartiene
simbolicamente per
metafora e conio) appare la
condizione pregiudiziale e
quindi pregiudizievole nella
quale si trova il Sistema
Giustizia, con tutti gli operatori
coinvolti (Giudici,
Consulenti, Periti, Assistenti
Sociali, Avvocati), che
manifestano un favor nei
confronti del genitore che
ambisce a fare dei figli proprietà
esclusiva, arrivando
ad attribuirgli fiducia incondizionata
anche talvolta in
assenza di motivazioni
plausibili.
E’ come se il genitore prevalente
goda di un legame
fiduciario, aprioristicamente
acquisito, a volte collusivo,
in cui il Sistema Giustizia
si trova imbrigliato a sostenere
insensatamente la
prevalenza medesima.
Il genitore prevalente (affidatario
fino al 2006, collocatario
dopo la riforma dell’affido
condiviso) gode
quasi sempre di un credito
di posizione. Capita che usi
questo credito per logorare,
fino ad inibirlo, il legame
tra i figli ed il genitore residuo.
Le conseguenze più gravi
della Sindrome di Stoccolma
per Procura possono
esitare in episodi di cronaca
nera come quello da cui siamo
partiti.
La Giustizia Riparativa deve
lanciare una sfida culturale
per superare la logica
sterile del vincitore/vinto,
perché attualmente nell’ambito
particolare del conflitto
separativo questo può rappresentare
un pericoloso
fattore di rischio sociale.
Nei casi estremi tuttavia la
Giustizia dovrebbe poter
contare su un sistema di tutela
multidisciplinare affinché
il minore coinvolto nella
lite sia tutelato e con lui
la effettiva realizzazione
delle sue relazioni primarie
e della famiglia estesa.
FRAGALE. Dottoressa la
tematica è talmente interessante
che possiamo riservarci
se lei me lo consente
di fare un approfondimento
di intervista per un altro numero
di In Giustizia.
UBALDI. Per me va bene.
Francesca Romana Fragale
*AVV. PENALISTA, PRESIDENTE
DELL'ASSOCIAZIONE "FUTURO
SOSTENIBILE". MEMBRO DELLA
CAMERA PENALE DI ROMA