Le principali novità introdotte con la legge 134 del 12 giugno 2003 sull'applicazione
della pena
La legge 134 del 12 giugno
2003 ha modificato
profondamente la disciplina
dell'istituto dell'applicazione
della pena su richiesta
delle parti. La riforma,
da tempo attesa, nelle fasi
finali dei lavori parlamentari
ha perso quella contingente
e trasversale convergenza
politica che ne aveva
caratterizzato l'iniziativa
e le prime discussioni
istituzionali. La principale
novità si concretizza in un
vistoso innalzamento del
limite della pena, posto a
tetto massimo, per la richiesta
del patteggiamento:
«Cinque anni soli o
congiunti a pena pecuniaria
». A questa, in apparenza,
piccola scossa sismica
necessariamente dovranno
seguire nel lungo periodo
una serie di scosse di assestamento
che dovranno
scandire l'avvenuta metabolizzazione
della nuova
disciplina da parte degli
altri istituti che costituiscono,
nel loro insieme, il
processo penale. La scelta
dell'efficienza come momento
trainante della macchina
processuale, in particolare
dal punto di vista
del principio della ragionevole
durata del processo, si
pone però in antitesi ad altri
importanti principi che
reggono il processo penale,
tra i diversi: il principio
del contraddittorio nella
formazione della prova.
Come si può facilmente rilevare
da una veloce lettura
dell’articolato, il legislatore
non ha ridisegnato un
nuovo modello di rito. Il
cuore, immutato, del patteggiamento
rimane quello
di essere una valida alternativa
al rito ordinario
strettamente caratterizzata
dalla negoziazione della
pena tra accusa e difesa. Il
nuovo comma (1-bis) introduce
nel tessuto dell'articolo
444 del codice di
procedura penale una serie
di situazioni in cui il legislatore
esclude il ricorso al
patteggiamento. Il suddetto
limite, tuttavia, non opera
in senso assoluto ma è diretto
in modo esplicito ai
casi in cui la pena determinata
superi i due anni soli
e congiunti a pena pecuniaria.
E' necessario evidenziare
la decisione di
suddividere i destinatari
dei benefici derivanti dalla
scelta del patteggiamento
in due gruppi, utilizzando
come momento discriminante
l'entità della pena irrogata:
nel primo rientrano
i soggetti a cui viene irrogata
una pena detentiva
non superiore a due anni;
nel secondo rientrano i
soggetti a cui viene irrogata
una pena detentiva superiore
ai due anni. La
riforma tende a creare così
un doppio binario nella disciplina
del patteggiamento
idoneo a distinguere, in
modo netto, i benefici riconosciuti
in base alla
«quantità» di pena irrogata.
L'articolo 3 della legge
134 del 2003 modifica,
inoltre, l'articolo 629 del
codice di procedura penale,
estendendo l'istituto
della revisione alle sentenze
di applicazione della
pena su richiesta delle parti.
Con questa disposizione
il legislatore pone fine ad
un forte contrasto, presente
tra dottrina e giurisprudenza,
in merito alla possibilità
di estendere l’istituto
della revisione alle sentenze
frutto di «patteggiamento
». Tra le novità della
riforma merita menzione il
significativo aumento (raddoppio)
delle soglie edittali
delle pene sostitutive che
determinerà un conseguente
ed inevitabile riassetto
di equilibri e ruoli nel rapporto
tra il patteggiamento
e il giudizio abbreviato. Il
legislatore, dopo aver individuato
nell'articolo 57
della legge 689 del 1981 i
criteri che il giudice deve
adottare nella sostituzione
della pena detentiva con
quella pecuniaria, impone
di determinare l'ammontare
della pena pecuniaria individuando
il valore giornaliero
al quale può essere
assoggettato l'imputato e di
moltiplicare quest'ultimo
per i giorni di pena detentiva.
Nonostante l'apparente
cura di particolari, la legge
in esame non si sofferma a
chiarire, per quanto riguarda
quest’ultimo aspetto, almeno
due ordini di problemi
che probabilmente non
tarderanno a creare dei
momenti di contrasto nell'attuazione
pratica della
disciplina. Il primo è l’individuazione
degli strumenti
che in concreto si
devono utilizzare per la
determinazione e la verifica
del parametro utilizzato
per la quantificazione
del «valore giornaliero
». Il secondo è l'esatto
ruolo e «peso» del giudice
e delle parti nella determinazione
dell'ammontare
del «valore giornaliero
», in particolare in
situazioni di disaccordo
tra questi ultimi. Come si
può notare anche quest’ultima
scelta del legislatore
è tesa a rilanciare
il ruolo del patteggiamento
nell'economia del
processo penale. Ogni
aspetto della riforma induce
a compiere una
profonda rilettura non solo
del rapporto intercorrente
tra i riti «alternativi
» ma anche tra questi
ultimi e un rito «ordinario
» che viene relegato
sempre più ad un ruolo
secondario e di eccezione.
In conclusione, il patteggiamento
«allargato»
appare come l’ennesimo
tentativo attuato dalle
forze politiche di tappare
alcune falle di un sistema
processuale in difficoltà
a causa dell'enorme carico
di procedimenti, aperti
con sempre più vigore
e chiusi con sempre maggiore
difficoltà. Il rischio,
però, è quello di
rincorrere, come assetati
in un deserto, un miraggio,
affascinante nella
sua dimensione immaginaria
e deludente nella
sua inconsistenza materiale,
di un’efficienza
esclusivamente aritmetica
tralasciando di curare
un altro tipo di efficienza
che nel diritto è misurata
attraverso valutazioni più
complesse e ricche di variabili
che comunemente
vengono tutte ricondotte
all’interno di quel particolare
«metro» definito
«Giustizia».
Di Leo Stilo