Lettera aperta della Camera Penale di Roma in occasione dell'anno giudiziario.
E’ trascorso appena
un mese dall’approvazione
della pseudo riforma
dell’ordinamento giudiziario
(i cui destini, comunque,
sembrerebbero
tutt’altro che scontati)
che la giustizia torna a
far parlare di sé per via
della sconsiderata aggressione
romana al Presidente
del Consiglio.
Si levano, dalla maggioranza
governativa, richieste
e minacce di
ispezione ministeriale
nei confronti del Giudice
per le indagini preliminari
“reo” di non aver
mantenuto in carcere
l’aggressore del premier,
in tal modo dando conferma
che i passati proclami
delle forze di governo
sull’uso necessariamente
residuale ed
eccezionale della custodia
cautelare non erano
frutto (come da sempre
denunciato dai penalisti
italiani) di una sedimentata
cultura delle garanzie
processuali ma solo
di slogan ad usum
delphini.
I penalisti romani, facendo
seguito alle posizioni
assunte negli ultimi
anni e mesi dall’Unione
delle Camere Penali,
senza – come sempre
– entrare nel merito
della vicenda giudiziaria
di cui ignorano gli elementi,
sentono il dovere
di protestare contro tale
inaccettabile intrusione
nell’autonomia e nella
discrezionalità di un
singolo magistrato (peraltro
noto per equilibrio
e scrupolo), rilevando
come l’incultura delle
garanzie continui a permeare
le forze politiche
(e non solo quelle di
maggioranza, come si
vedrà) del nostro paese.
Già qualche mese fa, il
presidente della Commissione
parlamentare
Antimafia (ex magistrato
ed esponente del
maggior partito di governo)
si è esibito in un
veemente attacco alla
magistratura di sorveglianza,
colpevole di
presunti eccessi di garantismo
e di scarcerazioni
“facili”, e già allora
le Camere Penali italiane
rilevarono – da una
parte – la gravità dell’attacco
e della “cultura
emergenziale” che lo
connotava, dall’altra il
preoccupante silenzio
della magistratura e l’aperto
consenso all’appello
giustizialista di numerosi
e “qualificati”
esponenti dell’opposizione
(per tutti un noto e
rispettato componente
della Commissione Antimafia
del principale partito
d’opposizione).
Si è visto, dunque, che
la difesa dell’autonomia
della magistratura non
passa, per la magistratura
stessa e per le forze
politiche italiane, attraverso
valutazioni di carattere
generale ma, di
volta in volta, si dispiega
attraverso l’analisi
critica di specifici provvedimenti
in relazione a
singole vicende giudiziarie.
E su tali specifici provvedimenti
il giudizio per
gli uni e per gli altri è
ormai misurato rispetto
al “danno” o meno che
questi possano determinare
per la maggioranza
governativa.
E’ così che, mentre si
scatena la polemica sull’indecoroso
provvedimento
in itinere sulla
prescrizione dei reati,
nessuna voce di dissenso
si è levata, neppure dalla
magistratura associata,
sui provvedimenti “per
Napoli”, sulle proposte
di aggravare il “doppio
binario” e di introdurne
addirittura un terzo, sulle
ipotesi ventilate di sostanziale
abolizione del
Tribunale del riesame e
di ritorno all’ordine di
cattura di remota memoria.
Da anni i penalisti romani,
con quelli di tutta
Italia, denunciano (e
continueranno a farlo
nonostante i tentativi romani
di normalizzazione
che segnaliamo in un separato
documento) il
problema della terzietà
del giudice nel nostro
ordinamento, ma con la
coerenza e la lealtà di
connotare politicamente
tale battaglia ideale. Essa,
infatti, non rappresenta
affatto un attacco
alla magistratura, ed anzi
è finalizzata all’esaltazione
del ruolo di terzietà
di un Giudice davvero
autonomo ed equidistante
dalle parti.
In tale, misero, “livello
di dibattito” sulla politica
giudiziaria, permangono
inalterati, a pochi
giorni dall'ennesima
inaugurazione dell'anno
giudiziario, i problemi
culturali ed organizzativi
che pervicacemente non
si vogliono risolvere.
Anzitutto il centrale problema
della terzietà del
giudice, principio ormai
costituzionale del quale,
in apertura del nuovo
anno, intendiamo per
l’ennesima volta denunciare
la scientifica irrisione.
Irrisione che deriva non
soltanto dalla falsa
riforma dell’ordinamento
giudiziario, che cambia
tutto per non cambiare
nulla, ma anche (e
qui ci riferiamo specificamente
alla realtà romana)
dall’atteggiamento
del Consiglio Superiore
della Magistratura,
che sta manifestando
negli ultimi mesi e nelle
ultime settimane un’evidente
quanto “ufficiale”
tendenza al disprezzo
del principio costituzionale.
Ci riferiamo al fatto che
a Roma, nell’ultimo periodo,
si sta verificando,
sotto gli occhi di tutti,
un sistematico afflusso
di magistrati inquirenti
nelle sezioni giudicanti
di primo e secondo grado
(forse per anticipare
la “riforma Castelli”…)
e addirittura si propone
un procuratore aggiunto
come responsabile dell’Ufficio
GIP (con una
facile battuta: il controllato
che d’incanto diventa
controllore).
Naturalmente si tratta di
ottimi magistrati e di
persone eccellenti, ma -
proprio per questo - ancora
una volta non si
vuol comprendere come
l’apparenza nella giustizia
debba corrispondere
e corrisponda anche alla
sua sostanza.
Cosa deve pensare non
(solo) l’avvocato ma il
comune cittadino nel rilevare
che quel pubblico
ministero così giustamente
diligente nel ruolo
di accusatore fino a
ieri, l’indomani riveste i
panni del Giudice nella
stessa sede giudiziaria?
E cosa si può pensare
della terzietà di questo
magistrato di fronte ai
suoi colleghi accusatori,
con i quali agiva sino a
poco prima in stretta
quanto doverosa sintonia?
E’ vero che la situazione
romana è persino di
scarso rilievo rispetto,
ad esempio, al fatto che
due esponenti del pool
antimafia della Procura
“più militante” d’Italia
(leggasi Palermo) sono
stati investiti delle funzioni
giudicanti nel Tribunale
dinanzi al quale,
poco prima, esercitavano
la funzione d’Accusa,
ma ci si domanda –
allora – cosa sia rimasto,
nel desolante silenzio
che ci circonda, delle
parole che pure avevamo
sentito nei mesi
scorsi da parte dell’Associazione
Nazionale
Magistrati e delle forze
d’opposizione, quando
si era quantomeno riconosciuto
che il problema
della terzietà del giudice
nella medesima sede
giudicante, in effetti, era
serio, ma che esso si sarebbe
certamente risolto,
senza necessità di
riforme, diligentemente
evitandosi – da parte del
CSM – il passaggio dei
magistrati da una funzione
all’altra nella stessa
città.
Chiacchiere, solo chiacchiere.
Nel modesto e deprimente
panorama che si
offre agli occhi della
pubblica opinione, l’inaugurazione
dell’anno
giudiziario è destinata a
rimanere quella parata
di regime che già lo
scorso anno la Camera
Penale di Roma aveva
denunciato, insieme alle
Camere Penali di tutta
Italia e (perfino) al
resto dell’avvocatura
associata.
Partecipare a tale ormai
burocratica e grottesca
manifestazione, cui, pure,
siamo stati ritualmente
invitati, rappresenterebbe
soltanto
un’ingiustificata connivenza
nei confronti di
una Giustizia che, purtroppo,
sta perdendo
credibilità e autorevolezza
(con gravissimo
danno di tutti) non solo
per i gratuiti attacchi
del mondo politico ma
anche e soprattutto per
l’incapacità di rinnovarsi
e di guardare al
proprio interno.
A tutto questo intendiamo
ancora una volta
sottrarci, ed è per questo
che il 15 gennaio,
ancora una volta, non ci
siamo prestati a partecipare
alla cosiddetta
inaugurazione dell’anno
giudiziario.