InGiustizia mantiene aperto il dibattito sull’esame di stato per l’abilitazione e sulle riforme in
atto pubblicando in questo numero una lettera che propone uno dei punti di vista
dei praticanti italiani.
Faccio riferimento al
Suo articolo dal titolo
«Una riforma
assolutamente vitale» pubblicato
su «Ingiustizia, la
Parola al Popolo» dello
scorso aprile, da me recentemente
letto.
Richiamo alcuni tratti del
Suo articolo, e li analizzo
applicandoli al mio caso,
di «praticante coatto» abilitato
da oltre tre anni, ancor
privo dell’agognato titolo.
«…È davvero assurdo che
migliaia di avvocati siano
giudicati tali da commissioni
del sud Italia… semianalfabeti
abilitati in
sedi poco serie… Inoltre,
sarebbe opportuno che la
figura del praticante avvocato
sia svuotata di ogni
potere difensivo… Il praticante
non deve poter difendere
nessuno in giudizio
».
Come scritto in precedenza,
vivo nello stato di praticante
coatto da diversi
anni: affronto l’esame di
abilitazione a Roma con
scarsi risultati, come potrà
immaginare.
Ciò nonostante, nel mio
status di abilitato posso
permettermi una folta
clientela, composta da
persone fisiche e società.
Inoltre collaboro con il
mio studio riscuotendo
successi e congratulazioni
da Suoi eminenti Colleghi,
che, come avvenuto, talvolta
hanno copiato di sana
pianta dei miei atti. Pago
l’IVA e la Cassa come
Lei.
Resta il problema di aver
fatto una scelta personale,
ovvero quella di voler affrontare
e ripetere a tutti i
costi l’esame a Roma. Ciò
dipende soprattutto da
motivi di lavoro, che mi
impediscono un trasferimento
presso le sedi da
Lei giudicate «poco serie
». Molti miei colleghi
ed ex colleghi (in quanto
divenuti avvocati) si sono
invece trasferiti presso tali
sedi, ove sono in procinto
o hanno recentemente superato
l’esame.
Quanto alla Sua prima osservazione,
inerente la facilità
di acceso alla professione
al sud, non avverto
il peso della problematica
così come da Lei illustrata.
La scelta dei miei colleghi
(resa vana dal decreto
di riforma in via di approvazione)
è stata determinata
dell’immane difficoltà
di accesso alla professione
mediante l’esperimento
della prova dell’esame
a Roma, Milano etc.,
causa gli ostacoli a Noi
noti. Ma quale è (anzi era)
la retta via? Se compariamo
il nostro sistema di accesso
alla professione forense
con quelli dei paesi
dell’intera Europa, ci accorgiamo
delle ingiuste disparità
di trattamento, che
travalicano il nostro buon
diritto di conseguire il titolo.
Allora quale è il sistema
giusto, quello che
promuove solo poche centinaia
di praticanti, o quello
che consente l’accesso
alla professione mediante
un esame pro forma? Perché
architetti, ingegneri ed
altri professionisti possono
ottenere l’abilitazione
dopo la laurea mediante
un semplice esame e noi
no?! Non appare tantomeno
condivisibile il Suo
punto di vista sulla situazione
dei giovani avvocati
che hanno superato gli
esami al sud: non credo
che un laureato in giurisprudenza
possa essere definito
un semianalfabeta.
Tralascio ogni considerazione
sulle Sue proposte
di impedire lo svolgimento
degli esami al sud, ma
in merito Le dico una cosa:
sono sicuro che Lei,
quando ha fatto l’esame di
abilitazione, non ha portato
come materia di esame
il Diritto Costituzionale.
Quanto poi alla Sua seconda
considerazione,
contenente l’auspicio di
impedire l’esercizio del
potere difensivo ai praticanti
abilitati, sappia che
in tal modo verrebbe lesionato
il diritto di tante
persone che, come me, vivono
di questo lavoro pur
trovandosi nel limbo dell’abilitazione,
e che vogliono
superare l’esame a
Roma.
In conclusione, La invito
ad una più serena considerazione
dei Suoi ex colleghi.
Di Mirko Bernard