Roma: gli uffici che non vedremo
Date: Wednesday, February 23 @ 14:39:26 CET
Topic: 2003


Intervista a Giancarlo Sili, primo dirigente dell’ufficio UNEP della Corte di Appello di Roma, sui nuovi uffici giudiziari capitolini



Ad un mese dalla sua entrata in funzione, la prima considerazioni che si può fare a proposito del nuovo ufficio Unep della Corte di Appello di Roma, è che le sue dimensioni sembrano ispirate ai termini di comparizione dinanzi al giudice di pace: ridotte della metà, rispetto alle reali esigenze dell’utenza. Ne è prova lampante la striscia gialla, che tutela il diritto alla privacy durante le operazioni alle casse per la ricezione degli atti da notificare: non supera i cinquanta centimetri dagli sportelli, mentre in tutti gli uffici aperti al pubblico, di solito, non è inferiore ad un metro.
La ragione di tutto questo sta nel fatto che il progetto originario è stato realizzato solo in parte, da che i ministeri competenti hanno ridotto il fondi inizialmente stanziati da quarantuno miliardi a meno di venti circa.
Lo studio iniziale del professore- architetto Giulio Fioravanti prevedeva infatti, oltre alle palazzine attualmente già in funzione, una struttura di raccordo tra le due che doveva coprire l’intero cortile della ex caserma Cavour.
In quella struttura dagli spazi veramente ampi avrebbero dovuto essere ubicati i locali aperti al pubblico, ovvero le casse per la ricezione e restituzione degli atti notificati, le casse per le esecuzioni, i saloni per gli ufficiali giudiziari.
Inoltre era previsto che si potesse accedere a quest’area non solo dall’interno del tribunale, ma addirittura direttamente dalla sottostante stazione della metropolitana, attraverso un tunnel che con assoluta certezza non sarà realizzato.
Quanto alle «rifiniture», gli uffici Unep avrebbero dovuto essere separati dai locali del tribunale siti in via Lepanto da una serie di giardini aiuole e aree di parcheggio, mentre questi ultimi avrebbero dovuto essere idealmente uniti a quelli di viale Giulio Cesare, con la chiusura al traffico di parte di via Lepanto e la sua conversione in area pedonale con tanto di piazzetta e passeggiata.
Non lo vedremo mai.
A fornirci queste informazioni su come avrebbe dovuto essere risistemata la città giudiziaria, è il dottor Giancarlo Sili, primo dirigente dell’ufficio UNEP della Corte di Appello di Roma che, insieme al consegnatario, Gennaro Marino, ci parla delle difficoltà che insieme hanno dovuto superare per fare entrare in un impianto di circa tremilaottocento metri quadri (a via Poma, sede del vecchio ufficio, erano all’incirca tremilaseicento), tutto quello che in origine era stato previsto per spazi assolutamente più ampi.
«Il primo grande sforzo da superare» - racconta Sili - «è stato quello di riuscire ad effettuare il trasferimento degli uffici da via Poma a viale Giulio Cesare, senza chiedere sospensione dei termini né per le notificazioni, né per le esecuzioni. Cosa che invece è avvenuta in altre città molto più piccole di Roma. Soltanto nel periodo tra il 28 luglio e il 20 agosto, abbiamo adottato il provvedimento di ricevere unicamente gli atti in scadenza.
Per questo abbiamo ricevuto rimostranze dagli avvocati e dal loro Consiglio dell’ordine, ma non è stata una iniziativa presa autonomamente dal nostro ufficio, bensì concordata e accordata dal presidente della Corte d’Appello.
E sono convinto» - conclude non senza una punta di soddisfazione- «che siamo riusciti a non far scadere nemmeno un atto».
Non altrettanto felice appare la soluzione per quanto riguarda al sistemazione degli uffici. Nonostante gli sforzi, quello che avrebbe dovuto essere il più bell’ufficio d’Europa, è una costruzione «monca». Il massimo che si è riusciti a fare è stato collocare gli ufficiali giudiziari addetti al pubblico nel piano interrato originariamente destinato all’archivio. Le casse per la ricezione atti in uno spazio che, come tutti gli addetti ai lavori hanno già sperimentato, ci costringe a notificare all’addiaccio.
Lo stesso dottor Sili e il suo fido consegnatario ci confessano che si stanno lambiccando il cervello per tentare di trovare una soluzione che consenta a chi deve notificare di non congelarsi d’inverno e rischiare l’infarto da colpo di calore d’estate.
«Noi subiamo gli stessi disagi che subite voi» – continua Sili – «A via Poma, per svolgere il mio lavoro, bastava che mi muovessi con l’ascensore da un piano all’altro. Ora devo andare da un palazzo all’altro, e per farlo devo attraversare tutto il cantiere. Cosicché a fine giornata arrivo distrutto».
Insomma, le solite cose all’italiana. Si parte con un progetto ambizioso che viene regolarmente abortito e quello che viene realizzato è il solito «accrocco», all’apparenza privo di criterio.
Chiediamo ad esempio il perché di quelle finestrelle che fanno tanto loculo.
Ci mostra le planimetrie del progetto originario, ed in effetti si scopre il loro senso architettonico.
Se tutto fosse stato fatto come si doveva, nelle stanze con le finestre da cella carceraria non avrebbero dovuto essere collocate persone, ma cose.
Gli impiegati avrebbero dovuto occupare uffici ai piani superiori. Ma qui si scopre una ulteriore «magagna». L’ultimo piano dell’edificio, quello più bello e luminoso, con dei finestroni altissimi che dominano tutti i dintorni, non è abitabile.
Ci conduce a visitarli il sempre più fido consegnatario, Gennaro Marino.
«Vede» – ci spiega – non è stata data l’abitabilità perché su questo piano non arriva l’ascensore, mancano l’impianto di riscaldamento e quello di refrigerazione, non c’è l’allaccio delle fogne e il soffitto a mansarda il alcuni punti è troppo basso, quindi inagibile». E allora che si fa? In una struttura carente di spazi, millecinquecento metri quadri restano inutilizzati?
Sembra di no. Nonostante non sia consentito, le mansarde vengono usate come archivio. «Ma senza esagerare», - dice il consegnatario – «perché potrebbero non reggere il peso».
Tra pochi giorni ricorre l’anniversario del terremoto in Abruzzo che ha sepolto, sotto una scuola inagibile, ventisette bambini e i loro insegnanti.
Eppure nel nostro Paese ci sono ancora ingegneri che progettano senza tener conto delle più elementari norme di sicurezza (e di buon senso), ma quel che è peggio, ci sono ancora autorità pubbliche che certi progetti li approvano e li finanziano.

di Raffaella De Angelis
Avvocato del Foro di Roma







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