Intervista a Giancarlo Sili, primo dirigente dell’ufficio UNEP della Corte di Appello
di Roma, sui nuovi uffici giudiziari capitolini
Ad un mese dalla
sua entrata in funzione,
la prima
considerazioni che si può
fare a proposito del nuovo
ufficio Unep della
Corte di Appello di Roma,
è che le sue dimensioni
sembrano ispirate ai
termini di comparizione
dinanzi al giudice di pace:
ridotte della metà, rispetto
alle reali esigenze
dell’utenza. Ne è prova
lampante la striscia gialla,
che tutela il diritto alla
privacy durante le operazioni
alle casse per la ricezione
degli atti da notificare:
non supera i cinquanta
centimetri dagli
sportelli, mentre in tutti
gli uffici aperti al pubblico,
di solito, non è inferiore
ad un metro.
La ragione di tutto questo
sta nel fatto che il progetto
originario è stato realizzato
solo in parte, da
che i ministeri competenti
hanno ridotto il fondi inizialmente
stanziati da
quarantuno miliardi a meno
di venti circa.
Lo studio iniziale del professore-
architetto Giulio
Fioravanti prevedeva infatti,
oltre alle palazzine
attualmente già in funzione,
una struttura di raccordo
tra le due che doveva
coprire l’intero cortile
della ex caserma Cavour.
In quella struttura dagli
spazi veramente ampi
avrebbero dovuto essere
ubicati i locali aperti al
pubblico, ovvero le casse
per la ricezione e restituzione
degli atti notificati,
le casse per le esecuzioni,
i saloni per gli ufficiali
giudiziari.
Inoltre era previsto che si
potesse accedere a quest’area
non solo dall’interno
del tribunale, ma
addirittura direttamente
dalla sottostante stazione
della metropolitana, attraverso
un tunnel che con
assoluta certezza non sarà
realizzato.
Quanto alle «rifiniture»,
gli uffici Unep avrebbero
dovuto essere separati dai
locali del tribunale siti in
via Lepanto da una serie
di giardini aiuole e aree
di parcheggio, mentre
questi ultimi avrebbero
dovuto essere idealmente
uniti a quelli di viale Giulio
Cesare, con la chiusura
al traffico di parte di
via Lepanto e la sua conversione
in area pedonale
con tanto di piazzetta e
passeggiata.
Non lo vedremo mai.
A fornirci queste informazioni
su come avrebbe
dovuto essere risistemata
la città giudiziaria, è il
dottor Giancarlo Sili, primo
dirigente dell’ufficio
UNEP della Corte di Appello
di Roma che, insieme
al consegnatario, Gennaro
Marino, ci parla delle
difficoltà che insieme
hanno dovuto superare
per fare entrare in un impianto
di circa tremilaottocento
metri quadri (a
via Poma, sede del vecchio
ufficio, erano all’incirca
tremilaseicento),
tutto quello che in origine
era stato previsto per spazi
assolutamente più ampi.
«Il primo grande sforzo
da superare» - racconta
Sili - «è stato quello di
riuscire ad effettuare il
trasferimento degli uffici
da via Poma a viale Giulio
Cesare, senza chiedere
sospensione dei termini
né per le notificazioni, né
per le esecuzioni. Cosa
che invece è avvenuta in
altre città molto più piccole
di Roma. Soltanto
nel periodo tra il 28 luglio
e il 20 agosto, abbiamo
adottato il provvedimento
di ricevere unicamente
gli atti in scadenza.
Per questo abbiamo ricevuto
rimostranze dagli
avvocati e dal loro Consiglio
dell’ordine, ma non è
stata una iniziativa presa
autonomamente dal nostro
ufficio, bensì concordata
e accordata dal presidente
della Corte d’Appello.
E sono convinto» -
conclude non senza una
punta di soddisfazione-
«che siamo riusciti a non
far scadere nemmeno un
atto».
Non altrettanto felice appare
la soluzione per
quanto riguarda al sistemazione
degli uffici. Nonostante
gli sforzi, quello
che avrebbe dovuto essere
il più bell’ufficio
d’Europa, è una costruzione
«monca». Il massimo
che si è riusciti a fare
è stato collocare gli ufficiali
giudiziari addetti al
pubblico nel piano interrato
originariamente destinato
all’archivio. Le
casse per la ricezione atti
in uno spazio che, come
tutti gli addetti ai lavori
hanno già sperimentato,
ci costringe a notificare
all’addiaccio.
Lo stesso dottor Sili e il
suo fido consegnatario ci
confessano che si stanno
lambiccando il cervello
per tentare di trovare una
soluzione che consenta a
chi deve notificare di non
congelarsi d’inverno e rischiare
l’infarto da colpo
di calore d’estate.
«Noi subiamo gli stessi
disagi che subite voi» –
continua Sili – «A via
Poma, per svolgere il mio
lavoro, bastava che mi
muovessi con l’ascensore
da un piano all’altro. Ora
devo andare da un palazzo
all’altro, e per farlo
devo attraversare tutto il
cantiere. Cosicché a fine
giornata arrivo distrutto».
Insomma, le solite cose
all’italiana. Si parte con
un progetto ambizioso
che viene regolarmente
abortito e quello che viene
realizzato è il solito
«accrocco», all’apparenza
privo di criterio.
Chiediamo ad esempio il
perché di quelle finestrelle
che fanno tanto loculo.
Ci mostra le planimetrie
del progetto originario,
ed in effetti si scopre il
loro senso architettonico.
Se tutto fosse stato fatto
come si doveva, nelle
stanze con le finestre da
cella carceraria non
avrebbero dovuto essere
collocate persone, ma cose.
Gli impiegati avrebbero
dovuto occupare uffici
ai piani superiori. Ma
qui si scopre una ulteriore
«magagna». L’ultimo
piano dell’edificio, quello
più bello e luminoso, con
dei finestroni altissimi
che dominano tutti i dintorni,
non è abitabile.
Ci conduce a visitarli il
sempre più fido consegnatario,
Gennaro Marino.
«Vede» – ci spiega –
non è stata data l’abitabilità
perché su questo piano
non arriva l’ascensore,
mancano l’impianto di riscaldamento
e quello di
refrigerazione, non c’è
l’allaccio delle fogne e il
soffitto a mansarda il alcuni
punti è troppo basso,
quindi inagibile». E allora
che si fa? In una struttura
carente di spazi, millecinquecento
metri quadri
restano inutilizzati?
Sembra di no. Nonostante
non sia consentito, le
mansarde vengono usate
come archivio. «Ma senza
esagerare», - dice il
consegnatario – «perché
potrebbero non reggere il
peso».
Tra pochi giorni ricorre
l’anniversario del terremoto
in Abruzzo che ha
sepolto, sotto una scuola
inagibile, ventisette bambini
e i loro insegnanti.
Eppure nel nostro Paese
ci sono ancora ingegneri
che progettano senza tener
conto delle più elementari
norme di sicurezza
(e di buon senso), ma
quel che è peggio, ci sono
ancora autorità pubbliche
che certi progetti li approvano
e li finanziano.
di Raffaella De Angelis
Avvocato del Foro di Roma