Il titolo utilizzato, "Alle radici dell'odio", può apparire
esagerato e pretestuoso, eppure tenta di esprimere in modo semplice l'esigenza
di comprensione che avverto ogniqualvolta mi trovo di fronte alle notizie di
un nuovo disaccordo/scontro, in materia di diritto penale sostanziale e processuale,
tra i rappresentanti dell'ordine giudiziario e quelli del potere legislativo.
Dopo essermi infervorato, penso come molti in questi ultimi tempi, e aver preso
alternativamente posizione a favore delle ragioni dell'una o dell'altra parte,
mi sono chiesto se sotto queste pseudo-discussioni, in realtà, vi sia
un problema di fondo che vada oltre il semplice e fisiologico antagonismo tra
poteri chiamati a rivestire ruoli fondamentali per l'esistenza stessa del nostro
Stato. Sollevando il velo delle discussioni "più gettonate"
(si pensi ad es.:l'esigenza di neutralità o di apoliticità del
giudice; l'esigenza di una separazione delle carriere in magistratura; l'iniquità
di alcune leggi fatte, o non fatte, ad hoc per soddisfare delle esigenze personali
del legislatore di turno…) ci si accorge che l'attenzione è stata
rapita dalle sovrastrutture derivate dall'esistenza di un ben più grave
ed inquietante dilemma.
Uno degli elementi portanti di un moderno e civile diritto penale è
rappresentato dal principio di legalità: vincolo imprescindibile tanto
per il legislatore che per il magistrato. Questo principio contiene in sé
la risposta ad uno dei quesiti più angosciosi della nostra civiltà
giuridica: solo il fatto previsto dalla legge come reato è realmente
tale (legalità formale), oppure può essere considerato reato ciò
che si configura come socialmente pericoloso sebbene non espressamente previsto
come tale da una legge (legalità sostanziale)? Se da un lato il principio
di legalità formale tende ad evitare l'arbitrio del potere esecutivo
e del potere giudiziario esercitando una forte funzione di garanzia, dall'altro
il principio di legalità, inteso in senso sostanziale, permette: di punire
ciò che è considerato antisociale, o non punire ciò che
non è considerato antisociale, prescindendo dalla sua formale previsione
legislativa. Osservando la storia dell'Europa, si può notare che il principio
di legalità formale trova un riconoscimento ed una pedissequa osservanza
nelle epoche storiche di stasi o di lenta evoluzione, in cui la società
poggia su principi sedimentati e generalmente condivisi. Al contrario, "
nei periodi di profondi sconvolgimenti sociali e nelle società in transizione,
in cui l'evoluzione della realtà sociale è più rapida della
possibilità e volontà di riforme legislative, tale principio entra
fatalmente in crisi a favore del contrapposto principio della legalità
sostanziale…e in queste fasi storiche la c.d. apoliticità del giudice
entra fatalmente in crisi poiché sia che egli rimanga fedele alla legge
scritta sia che attinga il diritto da fonti extralegislative, si presenta pur
sempre espressione di un ordine che non riflette più un generale consenso."
(MANTOVANI, Diritto penale, IV ed.,Torino, 2001).
Le radici dell'odio hanno trovato il terreno fecondo nel disordine discendente
dalla crisi dello Stato, provocata dall'incapacità di trovare ed affermare
dei saldi valori su cui poggiare il "diritto". In questo momento di
incertezza dalla società proviene un urlo che si cristallizza nell'aria
in una richiesta di giustizia. Questa voce viene immediatamente percepita, assorbita
e metabolizzata, creando una sorta di "corrispondenza d'amorosi sensi"
con i cittadini, dai primi fruitori ed elargitori di giustizia; la magistratura
nel tentativo di tappare le falle di un lento e macchinoso apparato produttivo
di leggi, pone in essere una vera attività creativa del diritto cercando,
tra le righe della Costituzione, dei principi politici a cui dare un'immediata
applicazione giurisprudenziale. Questi tentativi sono rivolti sia ad incriminare
fatti non direttamente riconducibili ad espresse norme di legge, si pensi ad
esempio all'incriminazione degli atti sessuali non consensuali in cui non è
presente la "violenza o minaccia", sia ad affermare la non corrispondenza
di un fatto, ad es. la sterilizzazione non reversibile, ad una fattispecie legale
descrivente un fatto costitutivo di reato.
La storia del secolo appena trascorso è testimone del pericolo insito
nell'abbandono, anche parziale, del rigido principio del nullum crimen nulla
poena sine lege a favore della ricerca di una maggiore giustizia. Il ricordo
vola alla metamorfosi subita dal codice penale liberale tedesco del 1871, trasformato
nel codice totalitario nazista con una modifica, terribile nella sua semplicità
formale, del parag. 2 nel 1935: bastò affermare che la pena dovesse essere
irrogata a chiunque avesse commesso un fatto che costituisse reato secondo il
pensiero fondamentale della legge penale e secondo il "sano sentimento
del popolo". Mi rendo conto di aver toccato alcuni temi di grande importanza
in modo forse troppo semplicistico e di questo chiedo perdono agli Studiosi
del diritto. Lo scopo di questo breve scritto è quello di far percepire
ed intravedere, anche in minima parte, ai non addetti ai lavori i gravi problemi
irrisolti posti alle radici delle attuali discussioni tra i massimi poteri dello
Stato. Non ho una soluzione da far uscire, per magia, dal cilindro, astrattamente
idonea a risolvere questi annosi problemi, ma l'unica cosa che riesco a fare
in quest'epoca di incertezze è di attaccarmi, come "ostrica allo
scoglio", alla fede nel principio sancito dall'articolo 25 della Costituzione:
"Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso".
di Leo Stilo