Inquietudine perugina
Date: Friday, March 18 @ 17:47:43 CET
Topic: 2002


La sentenza della Corte d’Assise di Appello di Perugia che ha condannato il sen. Giulio Andreotti a 24 anni di reclusione per essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli è sicuramente una di quelle decisioni destinate ad entrare nella storia e non solo per il fatto in sé, ma per le reazioni che ha provocato e per le scelte che la classe politica potrebbe prendere in dipendenza del proprio stato emotivo.



La sentenza della Corte d’Assise di Appello di Perugia che ha condannato il sen. Giulio Andreotti a 24 anni di reclusione per essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli è sicuramente una di quelle decisioni destinate ad entrare nella storia e non solo per il fatto in sé, ma per le reazioni che ha provocato e per le scelte che la classe politica potrebbe prendere in dipendenza del proprio stato emotivo.
E’ opportuno precisare che, chi scrive, è epidermicamente portato a non credere che Giulio Andreotti possa essere il mandante di un omicidio, così come è razionalmente portato a credere che l’accusa nei suoi confronti dei PM di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa trovi origini di natura politica e, soprattutto, che Giulio Andreotti sia un uomo troppo intelligente per dare un bacio a Totò Riina.
Tuttavia la cultura giuridica di un avvocato porta alla consapevolezza che l’epidermide non è un corretto strumento di valutazione delle decisioni giudiziarie, in particolare allorché queste ultime riguardano episodi nei quali la discrezionalità dei Magistrati è inferiore a quella che essi hanno in ipotesi delittuose di natura politica, sociale o religiosa, quale possono essere le diffamazioni, i reati contro il pudore o, anche, quelli di concorso esterno in organizzazioni criminali (quale è l’avvocato che non si sia mai domandato quale sia l’esatto limite tra la difesa del proprio cliente ed il suo favoreggiamento?).
Pertanto il fatto che Romolo Reboa ed altri milioni di Italiani siano intimamente convinti che Giulio Andreotti non possa essersi macchiato di un così grave delitto non equivale ad affermare che tale fatto non sia avvenuto né potrebbe essersi verificato: in sintesi, in assenza della lettura della decisione dei Giudici di Perugia nessuno è realmente in grado di affermare che essi abbiano errato.
E qui nascono le inquietudini delle quali si parla nel titolo di questo scritto. Il dopo sentenza, infatti, è stata una delle pagine da annotare da parte dei cronisti delle vicende giudiziarie, evindenziandola con i pennarelli di tutti i colori esistenti perché non rimanga anonimamente seppellita tra milioni di notizie.
Non era mai successo, infatti, che il supremo garante della legge, cioè il Capo dello Stato e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, telefonasse ad un neo condannato per un delitto comune per ricordare a lui ed alla nazione che la giurisdizione, in Italia, si fonda su tre gradi di giudizio e che, dopo Perugia, vi è la Cassazione, a Roma.
Il Presidente Ciampi non ha detto nulla che non sia giuridicamente corretto, né ha ricordato principi nuovi, atteso che gli stessi si rinvengono nella Costituzione della Repubblica sin dalla sua prima scrittura.
Il fatto è che, in un precedente episodio che investì un’alta carica dello Stato, la notifica al Presidente del Consiglio in carica di un avviso di garanzia per reati sicuramente meno gravi dell’omicidio, l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, tenne un comportamento diverso, malgrado si trattasse non già di una condanna per omicidio, ma della semplice comunicazione di inizio di un indagine.
E’ vero che, allora, il Capo dello Stato era un’altra persona che non godeva certamente del medesimo consenso popolare dell’attuale, tuttavia la memoria non ricorda analoghi interventi del Presidente Ciampi, malgrado il fatto che i casi in cui la magistratura si trovi a giudicare uomini politici non sia infrequente.
Considerato che, oltre al Capo dello Stato, hanno espresso pubblicamente la loro solidarietà a Giulio Andreotti quasi tutti gli esponenti politici di entrambi gli schieramenti, non può non ritenersi legittimo il sospetto che hanno molti cittadini, cioè che la preoccupazione della classe politica sia stata quella di tranquillizzare il sen. Andreotti, ricordandogli che esiste un comune desiderio (o volontà?) che la Cassazione lo mandi assolto e che quello di Perugia è solo un incidente di percorso.
E’ chiaro che se ciò è vero, come sembra, la classe politica teme qualcosa.
La rivista OP non aveva pubblicità, ma era piena di notizie clamorose, tanto clamorose che si è affermato che la fonte di informazione principale del giornalista assassinato fossero i servizi segreti, non è ben noto se quelli legittimi o quelli deviati rispetto ai loro fini istituzionali.
Il delitto Pecorelli rimane un mistero anche sotto un altro profilo: raramente si è visto come l’assassinio di un giornalista sia stato «accettato » dalla categoria cui apparteneva la vittima, quasi che il direttore di OP non fosse uno di loro, ma un personaggio la cui morte rientrava nella logica delle cose per quello che scriveva.
E, infatti, chi leggeva OP capiva che Mino Pecorelli non sarebbe invecchiato... Anche oggi, dopo vent’anni, si discute se la condanna di Giulio Andreotti sia o meno giusta, ma nessuno ha il coraggio di affermare pubblicamente che un uomo che era armato solo di una penna, un giornalista, è stato assassinato e lo Stato, dopo tutto questo tempo, ha un’unica preoccupazione: ricordare che giustizia deve ancora essere fatta.
E se la Cassazione affermerà l’innocenza del sen.
Andreotti, sostanzialmente la giustizia sarà stata in grado di affermare solo che Pecorelli è morto per quello che scriveva, cioè che, di fatto, si è suicidato.
La storia d’Italia del XX secolo è iniziata con un regicidio e si è evoluta attraverso omicidi politici.
Il delitto Matteotti ed il successivo discorso del 3 Gennaio 1925 segnano la svolta tra il fascismo parlamentare e la dittatura, ma lo stato di diritto almeno punì i suo responsabili.
L’assassinio di Mussolini e della Petacci è stato considerato un atto di «giustizia», ma almeno chi lo ha commesso se ne è assunto la responsabilità politica.
Pecorelli non era un re, né un deputato, né un capo di governo: qualunque decisione assumerà la Cassazione egli però rimarrà sempre vittima di uno stato incapace di fare giustizia.

di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma







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