Esistono molti tipi di guerre...
Chi scrive non ama la
guerra, ma è perfettamente
cosciente
che vi sono casi nei quali
essa può essere inevitabile
e che non è sempre corretto
affermare che il responsabile
del conflitto sia chi ha
sparato il primo colpo.
La guerra di difesa del proprio
territorio, ad esempio,
è sostanzialmente ammessa
da ogni religione e dalla
grande maggioranza delle
coscienze, eppure non sempre
potrebbe essere «giusta
»: vi sono territori di
confine, contesi dai popoli
per secoli, per i quali sarebbe
molto più corretto
che gli esseri umani trovassero
una soluzione di compromesso
piuttosto che una
di forza che, inevitabilmente,
provocherà nuovi conflitti
in futuro.
D’altro canto chi può negare
che, molte volte, vi sono
uomini i quali sabotano
ogni soluzione di compromesso
e guidano i loro popoli
sino alla vittoria o alla
sconfitta. Essi vengono poi
ricordati nei libri di storia
come degli eroi, solo perché
hanno vinto o sono
morti alla testa del loro
esercito perché, leggendo
la storia dei popoli, il prezzo
che questi ultimi pagano
in termini di vite umane
appare meno importante dei
risultati delle azioni dei loro
condottieri.
Basta scorrere i libri di storia
delle scuole inferiori per
rendersi conto come essi
dedichino poche pagine ai
periodi di pace e di benessere
di questa o quella nazione,
soffermandosi sugli
eventi bellici o rivoluzionari.
La pace non fa notizia, non
fa audience, tanto che ci si
ricorda di manifestare in
suo favore solo quando si
deve esprimere il dissenso
nei confronti di qualcuno,
quasi che la voglia di pace
trovi la propria linfa vitale
esclusivamente nei venti di
guerra.
Tralasciando quelle manifestazioni
pacifiste le quali si
concludono in scontri con le
forze dell’ordine, in quanto
la pace è solo strumentale
alla volontà di sovvertire un
determinato ordine costituito,
certo è che anche il tema
della pace si presta a strumentalizzazioni
di politica
interna o di politica estera.
E’ chiaro che non è sufficiente
che un uomo politico
si rechi ad Assisi a pregare
sulla tomba di San Francesco
per dire che egli voglia
realmente la pace, così come
è evidente che non si
può accusare di essere un
guerrafondaio un uomo di
governo che tenta di districarsi
tra gli impegni assunti
all’interno di un sistema internazionale
di alleanze che,
se impone al paese di partecipare
a certe azioni, assicura
d’altro canto un sistema
ed un tenore di vita al quale
nessuno vorrebbe rinunciare.
Nella vicenda dell’IRAQ è
palese che la maggioranza
degli Italiani non è convinta
della giustezza di questa
«guerra preventiva» che Bush
vuole scatenare in medio
Oriente.
E ciò non perché qualcuno
pensi che Saddam Hussein
sia un uomo che meriti di
occupare la poltrona che occupa
o che nel suo paese si
viva democraticamente, ma
per motivi diversi.
Nessuno può omettere di domandarsi
perché, se il dittatore
iracheno costituisce veramente
un pericolo per l’umanità,
non è stato rimosso
da Bush padre allorché egli
scatenò la guerra del Golfo.
E, ancora, è difficile pensare
che, se Saddam è in possesso
di armi di distruzione di
massa in quantità tale da minacciare
l’umanità, qualcuno
dovrà pure avergliele vendute.
Considerato che, prima
della guerra del Golfo, il nemico
numero uno degli Stati
Uniti era l’Iran integralista
contro il quale Saddam entrò
in guerra, viene il sospetto
che le certezze degli USA
sul possesso di armi chimiche,
batteriologiche e, forse,
nucleari derivino più dalla
circostanza di esserne stati i
fornitori che dall’opera di intelligence
della CIA.
Se, poi, ci si deve trasformare
nei gendarmi del mondo,
perché colpire Saddam e lasciare
che nel continente
africano si compiano periodiche
stragi di innocenti alle
quali solo i missionari cristiani
cercano di porre dei
fragili ostacoli?
Forse la risposta non si può
dare perché paleserebbe un
animo cinico e razzista: quei
popoli si sterminano tra di
loro perché hanno molta fame,
poca cultura e non hanno
il petrolio e, quindi, perché
il mondo dovrebbe spendere
milioni di dollari per
mettere pace tra dei negri i
quali morirebbero comunque
contagiati dall’AIDS?
Tali ed altri «cattivi» pensieri
nascono nel cervello anche
di chi non ha fatto marce
per la pace e giudica l’operato
del Governo Italiano
adeguato alle esigenze del
Paese, tenuto conto che la
nostra è una Nazione a sovranità,
se non limitata, almeno
condizionata dalla presenza
di basi militari USA
su tutto il territorio e dalla
circostanza che la economia
italiana è tale da non consentire
che il Paese entri in
antitesi con la politica statunitense.
Stupisce, invero, sentir critiche
alla posizione del Governo
Berlusconi con riferimento
alla crisi irachena da
parte dell’ex Presedente del
Consiglio, on. D’Alema, che
ordinò l’invio di bombardieri
italiani su Belgrado, cioè
una capitale europea a poco
più di un’ora di volo da Roma,
dove governava un leader
con radici politiche vicine
alle sue che aveva studiato
negli USA e che, sino a
poco tempo prima, era stato
un partner in affari dei paesi
occidentali.
Il vero problema politico
dell’attuale governo italiano
non è la propria capacità di
affrontare la crisi irachena,
atteso che è evidente il tentativo
di mediare sia con gli
USA che con il mondo arabo
per rendere evidente che
l’eventuale partecipazione
italiana è limitata a quell’apporto
che la condizione del
Paese non consente di negare,
ma l’immagine dello
stesso in presenza di un movimento
pacifista che è diverso
da quelli fortemente
strumentali ai quali l’esperienza
ci ha abituato.
Il vero leader di questo movimento
è a Roma, tra le
mura di una città vaticana
che non ha eserciti, ma la
grandezza morale di un anziano
Papa che non si rassegna
ad un mondo che pare
marciare verso un inevitabile
conflitto mussulmano /
cristiano.
I partiti di governo non debbono
consentire che l’opposizione
si appropri della pace
trasformandola in uno
strumento di guerra al governo
stesso. Una bandiera
arcobaleno, in quanto tale,
ben potrebbe veder sfilare a
suo fianco bandiere azzurre,
tricolori con la fiamma, leghiste
e con lo scudo crociato.
Fare giuste scelte di governo,
lasciando però le coscienze
in balia dei propri
oppositori, è il più grave errore
che potrebbe commettere
un leader politico, vieppiù
se perfetto conoscitore degli
strumenti mediatici.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma