La probabile origine di una fra le normative
più note ed universalmente applicate. Il racconto in rima
di un processo particolare
Quante volte abbiamo
citato anche
noi questa famosa
normativa, conosciuta forse
più di tanti brocardi, ricordo
di studi universitari,
talvolta mal digeriti?
Quante volte ce la hanno
ricordata clienti non soddisfatti
dell’esito giudiziario
delle loro vicende?
Anche i non addetti ai lavori
possono dire di conoscerne
bene il contenuto,
l’applicazione, l’analogia
e molti possibili risvolti,
trattandosi di legge che
trova frequente applicazione
anche al di fuori
delle aule di giustizia.
Al di là dei risvolti nella
sua applicazione (o presunta
scurrilità), si vuole
comunque porre in evidenza
come colui che l’ha
concepita, diversamente
da molti legislatori moderni,
abbia messo su carta
una legge di facile lettura,
comprensibile a tutti e che
offre poco spazio a diverse
interpretazioni o orientamenti
dottrinari difformi.
Speriamo che, quantomeno
nella chiarezza
espositiva, chi ha il compito
di scrivere le nostre
leggi prenda esempio.
Ma quando è realmente
nata questa legge? La sua
origine è stata solo quella
di forgiare un’adeguata rima
al concetto che esprime
in maniera chiarissima,
ovvero vi sono altre
radici storiche?
Una spiegazione sembra
vi sia, e si colloca nella
più spontanea e genuina
tradizione di una goliardia
di cui, purtroppo, si vanno
perdendo le tracce nei moderni
mega-atenei sovraffollati
e spersonalizzanti.
La legge del Menga viene
per la prima volta ufficialmente
codificata nel processo
contro Don Sculacciabuchi.
Si tratta di un
racconto in rima, in cui
viene narrata con dovizia
di particolari e nel pieno
rispetto del codice di rito,
la vicenda giudiziaria di
un prete fiorentino e del
suo atto criminale, vale a
dire «di aver con arte magistrale,
attirato un giovinetto
sciocco, e avergli
messo in culo dieci dita,
di grossa fava lucida e
forbita».
Si narra che autore del volumetto,
sia quel Rosati,
poi divenuto Ministro della
Giustizia sotto Giolitti,
prendendo spunto da un
episodio vero. La vicenda
si svolge in un’aula di
giustizia, davanti al Regio
Tribunal Bavilonese, presieduto
dal Giudice Favoni,
coadiuvato da Bucalossi
e Finocchietti come
giudici a latere. L’accusa
è sostenuta dal Pubblico
Ministero Cazzone. L’imputato
è difeso dall’avvocato
Inculatti, mentre le
ragioni della parte civile
sono sostenute dal collega
Spaccamunduli.
Il processo rispetta la procedura,
con audizione di
perito e testimoni, in
un’aula che la parte civile
definisce un cesso, in
quanto luogo atto a deporre.
E dopo aver «udito i
lagni della parte lesa, …
la parola alla difesa»
(Chissà perché queste parole
non suonano strane o
solo frutto della fantasia
del Rosati).
Dopo le perorazioni dei
legali, con citazioni che
toccano, tra gli altri, Cicerone,
Ottaviano, Platone
ed i Promessi Sposi, e prima
che il Tribunale si ritiri,
è lo stesso parroco Sculacciabuchi
a narrare la
vicenda dal proprio punto
di vista, e dopo essersi dichiarato
non colpevole sia
del fatto, sia di altre accuse
ed allusioni, conclude
«invocando giustizia e
non clemenza, impassibile
attendo la sentenza» (anche
questa credo l’abbiamo
sentita da qualche imputato).
La sentenza che conclude
il processo, ha forse analogie
con il provvedimento
del giudice gorilla che
rinchiuse in prigione Pinocchio,
reo di essersi fatto
abbindolare, per dare
una soddisfazione ai ladri.
Il Regio Tribunal Bavilonese,
assolve l’imputato,
con motivazione che entra
nel merito della causa, in
particolare sulla contraddittorietà
dei testimoni.
Ma finalmente, quando richiama
le norme vigenti,
non ritiene di applicare
l’articolo che prevede come
«cadrà in multa un cittadino
sorpreso dentro un
culo mascolino». Ed assolve
pertanto l’imputato
applicando ben due leggi,
vale a dire «la gran legge
del Menga che dice: chi
l’ha in culo se lo tenga,
oppure la stessa legge di
Bisenzio che dice: chi l’ha
in cul faccia silenzio».
La seconda delle due norme
applicate ha avuto minor
successo, ma la prima
continua ad essere quotidianamente
invocata.
Il piccolo libretto, esilarante
tanto quanto dissacrante,
e non certo volgare,
si trova ancora sugli
scaffali di molte librerie,
ed è una lettura da consigliare
e, oltretutto, da tenere
sulle nostre scrivanie
a disposizione di clienti e
giovani collaboratori, per
dimostrare non solo concetti
ormai acquisiti e la
loro origine, ma anche (e
forse di più), per avere
una prova di come questa
macchina che è la giustizia,
possa ancora far sorridere
e, magari, a chi è stato
goliardo, evocare il
tempo che fu.
di Gianni Dell'Aiuto
Avvocato del Foro di Roma