Il Presidente della Repubblica
ha rinviato alla
Camere la legge approvata
dal Parlamento sulla
inappellabilità delle sentenze
di assoluzione da
parte del Pubblico Ministero.
La storia della Repubblica
insegna che del potere
di cui all'art. 74 Cost. è
stato fatto un uso limitato,
sia perché tra i Governi ed
il Quirinale è invalsa la
prassi delle consultazioni
preventive, le quali hanno
risolto ab origine molti
contrasti, sia perché un suo
esercizio continuo farebbe
venir meno al Presidente la
funzione di rappresentante
dell'unità nazionale prevista
dall'art. 87 Costituzione,
ponendolo in conflitto
con il Parlamento e con il
Governo che ne è espressione.
Quindi la scelta del
Presidente Ciampi di rinviare
alle Camere la cosiddetta
“legge Pecorella”, di
per sé giuridicamente legittima,
merita una valutazione
politica, anche alla luce
del fatto che il rinvio è avvenuto
in prossimità dello
scioglimento del Parlamento
e, quindi, con la consapevolezza
che l'effetto concreto
potrebbe essere non
la modifica della normativa
da parte delle Camere, ma il
suo affossamento.
Diverso sarà quindi il giudizio
politico ove il lettore faccia
o meno proprie le considerazioni
di costituzionalità
e di incongruenza di alcune
norme con riferimento al sistema
che si leggono nel
messaggio del Presidente
Ciampi.
Non vi è dubbio che alcune
considerazioni del Presidente
della Repubblica con riferimento
alla mancata omogeneità
della legge approvata
dal Senato il 12 Gennaio con
il restante corpus normativo
siano giuridicamente condivisibili
dalla maggioranza
degli operatori del diritto,
ma esse di per sé non appaiono
sufficienti per avallare
politicamente l'iniziativa
presidenziale: infatti sono
decenni che il Parlamento
sforna leggi tecnicamente
mal fatte ed i Capi dello Stato
le firmano, senza aver trasformato
il Quirinale in un
supremo ufficio legislativo
correttivo delle incapacità
tecniche di deputati e senatori.
E ciò non perché tale attività
non sarebbe teoricamente
meritoria, ma per il semplice
fatto che a ciò è preposta
ex post la Corte Costituzionale
e che gli interventi
dovrebbero eseguirsi sulla
maggioranza delle norme,
fatto che porterebbe Parlamento
e Presidenza della Repubblica
ad un conflitto continuo.
Il giudizio politico
sull'iniziativa del Presidente
Ciampi non può che aversi
con riferimento alle sue considerazioni
di ordine costituzionale
e, quindi, ai richiami
agli artt. 97 e 111 Cost., cioè
ai principi di buon funzionamento
della Pubblica Amministrazione
e del giusto processo.
L'art. 97 Cost. è stato richiamato
dal Capo dello Stato in
adesione alle censure alla
riforma espresse dal Primo
Presidente della Corte di
Cassazione, secondo il quale
la nuova normativa avrebbe
ingolfato il Supremo Ufficio
Giudiziario.
Chi scrive non è in possesso
di dati che consentano di
confermare o smentire il parere
di tale autorevole magistrato:
tuttavia è ovvio che,
se la riforma avrebbe ingolfato
la Cassazione, avrebbe
liberato di lavoro le Corti di
Appello penali.
Quando furono abolite le
Preture, figlie del diritto romano,
in favore di un giudice
unico avulso dal territorio
ed istituiti i G.O.A, la riforma
non venne rinviata alle
Camere, malgrado gli appelli
dell'Avvocatura facessero
presente all'allora Capo dello
Stato che le Corti di Appello
civili sarebbero state pressoché
paralizzate (evento puntualmente
verificatosi) e venisse
invocato il principio di
cui all'art. 97 Cost..
Il che significa o che la voce
del Presidente Marvulli vale
più di quella di 70.000 avvocati
e dei Presidenti delle
Corti di Appello, o che il
Presidente Ciampi è più sensibile
alle problematiche del
funzionamento di alcuni uffici
rispetto ai suoi predecessori,
o, ancora, che il Capo
dello Stato è incorso in un
eccesso di motivazione, forse
nell'incertezza se gli Italiani
condividano il suo giudizio
sulla questione fondamentale
che sta dietro la bocciatura
della riforma, cioè la parità
tra accusa e difesa, sancita
dall'art. 111 Cost..
Tale parità, ad avviso del
Presidente Ciampi verrebbe
ad essere alterata dall'impossibilità
per il PM di appellare
le sentenze di assoluzione,
mentre tale diritto rimane
concesso all'imputato.
Malgrado il Capo dello Stato
riconosca che il «sistema
delle impugnazioni può essere
ripensato alla luce dei criteri
ispiratori del codice vigente
dal 1989», cioè il rito
accusatorio, lascia perplessi
la affermazione «le asimmetrie
tra accusa e difesa costituzionalmente
compatibili non devono mai travalicare i
limiti fissati dal secondo
comma dell'articolo 111 della
Costituzione», utilizzata di
fatto per sostenere che, con
le nuove norme, si creerebbe
una disparità in favore della
difesa ed in danno del PM.
Non può sottacersi il timore
che la campagna elettorale
improntata contro la figura
dell'attuale premier Berlusconi
e l'accusa che la nuova
legge lo avrebbe favorito
possa aver condizionato psicologicamente
in maniera negativa anche il Capo dello
Stato, facendogli trascurare
altri elementi, quali, ad
esempio, quello che la riforma
andava a beneficio di im-
putati aventi una capacità
economica limitata e, quindi,
non in grado di sostenere
grandi oneri di difesa.
Il momento della parità formale
tra le parti è il dibattimento,
dove però l'imputato
giunge in dipendenza della
accusa formulata da uno o più
magistrati, i quali si sono potuti
avvalere degli strumenti
più costosi (polizia giudiziaria,
pedinamenti, perquisizioni,
intercettazioni, rogatorie
all'estero, esperimenti di laboratorio,
ecc.).
Il tutto, stipendi dei PM compresi,
a spese dello Stato accusatore.
Se al momento della discussione
il PM non sia stato in
grado di dimostrare ad un suo
collega la colpevolezza di chi
ha voluto a giudizio, costituisce
violazione della parità
delle parti imporgli di non
continuare ad utilizzare la supremazia
del suo ruolo contro
colui che era sin dall'inizio
costituzionalmente un presunto
innocente?
In nazioni sicuramente democratiche
quali Stati Uniti ed in
Inghilterra l'inappellabilità
della sentenza di assoluzione
è la regola: e lì, ove la parità
tra accusa e difesa non è solo
teoria, la Procura non si duole
del sistema.
Di Romolo Reboa
Avvocato del Foro di Roma