La morte del carcere
Ci giunge la notizia
della morte del trentaduenne
Simone La
Penna, tossicodipendente e
anoressico (secondo quanto
si apprende da fonti interne
al carcere), avvenuta nel carcere
romano di Regina Coeli,
mentre ancora attendiamo
l’esito dell’indagine della
Procura della Repubblica
per la morte di un altro giovane,
Stefano Cucchi, deceduto
all’Ospedale Pertini di
Roma lo scorso 22 ottobre.
Stefano Cucchi viene arrestato
dai Carabinieri il 15 ottobre
perché in possesso di
sostanze stupefacenti. Passa
quindi la notte nella cella di
sicurezza della caserma dei
Carabinieri per essere trasferito
il giorno dopo in quella
del Palazzo di giustizia, dove,
secondo la testimonianza
di un altro detenuto, avrebbe
subito quelle violenze che ne
hanno compromesso l’integrità
fisica. Il Cucchi, tradotto
nel carcere di Regina
Coeli, lamenta subito problemi
di salute e viene quindi
trasferito nel reparto di sicurezza
dell’Ospedale Pertini,
dove deperisce giorno
per giorno fino al decesso
avvenuto il 22 ottobre. L’inchiesta,
nonostante l’attenzione
mediatica, ha mostrato
da subito un’andatura incerta
e contraddittoria, con una
prima autopsia che non ha
chiarito i dubbi sorti davanti
alle foto del corpo di Stefano
Cucchi, orrendamente
deformato, e con le prime dichiarazioni
rilasciate da agenti penitenziari, carabinieri
e compagni di cella del
giovane non del tutto convergenti.
Per cui la Procura
ha disposto la riesumazione
del cadavere e una seconda
autopsia che dovrà far luce
sul caso. Anche perché in un
primo momento era stata apparecchiata
una versione dei
fatti che legava la morte ad
una pregressa situazione patologica
del giovane, definito
come tossicodipendente,
sieropositivo, anoressico, insomma
una larva umana a
cui poteva essere fatale anche
una caduta dalle scale, la
tipica motivazione da giallo
televisivo che anche lì cade
immancabilmente. Ma questa
volta probabilmente il
caso era talmente eclatante
che metteva in evidenza come
il problema carcere interessi
potenzialmente tutti.
Infatti nell’immaginario collettivo
il carcere è riservato
ai “delinquenti”, ma il nostro
Cucchi aveva solo 20 grammi
di droga. La sproporzione tra quanto commesso
e la pena ricevuta, ossia di fatto
la morte, è evidente e ci ricorda
che il carcere non dovrebbe
stare solo dentro le
sue mura ma uscirne anche
fuori, perché è un problema
che riguarda tutto il paese e
quindi tutti noi. Tanti carcerati
hanno fatto scioperi della
fame o altre proteste fino
ad arrivare ai casi più tragici
dove la disperazione è diventata
suicidio, come per la
brigatista Blefari Melazzi, o
dove non si è riusciti a spiegare
la morte. Quest’ultimo
è il caso Cucchi; che però è
stato l’unico nel suo genere
ad aver la forza di emergere
tra l’opinione pubblica. Se
non bisogna dimenticare che
in carcere si va solo se si viola
la legge e quindi la carcerazione
rappresenta corrispettivo
per il male arrecato
alla società e mezzo di dissuasione
dal commettere crimini,
è anche vero che una
pena sproporzionata a quanto
commesso, tempi della
giustizia eccessivamente
lunghi, sovraffollamento
delle carceri, l’assoluta carenza
di strutture di reinserimento
generano sentimenti
di frustrazione, la percezione
di subire un’ingiustizia, ingiustizia
alla quale non sono
mai stati condannati. Certamente
questo non è il clima
ideale per procedere a quella
rieducazione che prevede la
nostra Costituzione al suo
articolo 27 né tanto meno
per il rispetto del senso di
umanità previsto sempre
nello stesso articolo. Un tale
clima coinvolge tutti gli operatori
delle carceri, che tante
volte hanno protestato a
fianco dei detenuti, e nei casi
più estremi è terreno fertile
su cui si coltivano storie
come quella di Cucchi. Caratteri
comuni sembrano riproporsi
in queste storie, e
un esempio è l’altra morte di
carcere, quella di Simone La
Penna: c’è infatti la tossicodipendenza,
ci sono difficoltà
psicologiche, c’è la
protesta per essere visitati da
un medico, per incontrare i
legali, per essere sentiti dal
magistrato, c’è una fragilità
di fondo, una debolezza che
accomuna tanti casi. C’è, insomma,
l’ansia e la difficoltà
dei più deboli di veder garantita
la propria persona,
ma troppo spesso sono le deficienze
dello stato, e non le
colpe dei detenuti, a porsi
come limite alla garanzia dei
diritti dei singoli e del diritto
dello stato. Che fosse la volta
che i cittadini prendano
consapevolezza dello stato
del nostro sistema penitenziario?
Dopo le recenti morti in carcere, è tempo di rivedere questa istituzione nella coscienza comune?
Massimo Reboa