Confermata la condanna dei genitori in favore del compagno della giovane Hina Saleem
Lo scorso 18 febbraio
2010 sono
state rese pubbliche
le motivazioni della sentenza
con cui la Suprema
Corte di Cassazione ha
confermato le condanne
emesse dalla Corte d’Assise
di Appello di Brescia
a carico dei genitori di Hina
Saleem, la ragazza
pakistana uccisa dal padre
nel 2006 al culmine di una
serie di contrasti insorti
intorno alle scelte di vita
adottate dalla giovane.
Secondo la pronuncia, infatti,
Hina era vittima di
un patologico rapporto di
possesso dominio da parte
del padre, per sottrarsi al
quale aveva intrapreso da
tempo una relazione e una
convivenza con un ragazzo
italiano, secondo un
percorso contrario ai voleri
del padre oltre che contrastante
con gli schemi
propri della regola islamica
. Va peraltro chiarito,
che la motivazione religiosa
che si è voluta dipingere
sullo sfondo della vicenda,
può risultare fuorviante
in quanto il dibattimento
ha fatto emergere
una realtà di abusi sessuali
del padre sulla figlia, in
modo tale che il citato rapporto
di possesso dominio
aveva una connotazione
diversa e meno nobile da
quella religiosa. Tuttavia
ciò che spicca e merita di
essere sottolineato nella
decisione del Supremo
Collegio è il riconoscimento
della legittimazione
a costituirsi parte civile in
capo al giovane fidanzato
di Hina, a cui la Corte ha
assegnato una provvisionale
simbolica di 2.000,00
euro a titolo di risarcimento
del danno extra patrimoniale
patito in seguito
alla uccisione della fidanzata
convivente. Sullo
sfondo di una ideale contrapposizione
tra famiglia
tradizionale e famiglia di
fatto, in cui nel caso di
specie la prima emerge
come luogo di violenze ed
angherie e la seconda come
luogo di salvezza e legittima
aspirazione di libertà,
non si può non sottolineare
il consolidarsi di
un orientamento della giurisprudenza
incline a dare
rilievo alla famiglia di fatto
come luogo di svolgimento
e realizzazione della
personalità meritevole
di tutela. Una dei primi riconoscimenti
della rilevanza
costituzionale della
famiglia di fatto si è avuto
nella sentenza n. 237 del
13.11.1986 della Corte
Costituzionale, laddove
sulla scorta dell’art. 2 Cost.
e del rilievo da tale articolo
offerto alle formazioni
sociali c.d. intermedie,
si giunge ad estendere
anche al convivente more
uxorio la scriminante di
cui all’art. 384 c.p., riconoscendo
anche alla famiglia
di fatto il ruolo di basilare
formazione sociale
in cui si coagulano rapporti
che coinvolgono bisogni
essenziali, diritti ed affetti
della persona. Recentemente,
si sono avute significative
aperture sul piano
legislativo, basti pensare
alla legge sulla procreazione
assistita (cfr. art. 5
L. 40/04) o alla legge istitutiva
del reato di abusi familiari
(cfr. L. 154/01),
delineando un iter che ha
avuto come naturale e forse
prematuro sbocco il
tentativo operato nella
scorsa legislatura di codificare
le unioni di fatto.
In giurisprudenza proprio
facendo leva sulla dimensione
affettiva si è via via
consolidato l’indirizzo teso
ad ammettere la legittimazione
iure proprio del
convivente a richiedere il
risarcimento dei danni,
patrimoniali e non, in caso
di morte o di lesioni patite
dal partner. Infatti, la principale
delle obiezioni che
aveva frenato un’apertura
in tal senso, cioè l’assenza
nell’ordinamento di una
norma istitutiva di diritti e
doveri a carico dei conviventi
sul modello di quanto
previsti dagli artt. 143 e ss.
c.c. a proposito dei coniugi,
è stata risolta attraverso
un maggior rigore probatorio
richiesto riguardo la
stabilità della convivenza e
la sussistenza di una duratura
comunione morale e
materiale tra i conviventi.
Una volta provati questi
elementi (utilizzati come
grimaldello per avvicinare
i due modelli di famiglia),
dicono in sostanza i giudici,
diverrebbe discriminatorio
escludere il convivente
dai meccanismi risarcitori
previsti dagli artt.
2043 e 2059 c.c., con il
conseguente riconoscimento
della legittimazione
ad causam, ribadito anche
nel caso tristemente noto
della giovane Hina Saleem.
Giorgio Ciccarelli
Avvocato del Foro di Roma